No, non stiamo per tornare all’inflazione degli anni ‘70

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Il mondo ama le etichette. I bassissimi aumenti dei prezzi nel decennio successivo alla crisi finanziaria globale (GFC) sono stati definiti, in modo appropriato, lowflation – in altre parole, un’inflazione inferiore agli obiettivi delle banche centrali ma positiva, e quindi non deflazione. Ora, con l’impennata dell’inflazione, siamo forse entrati nel decennio dell’highflation – un’inflazione troppo alta rispetto al mandato delle banche centrali, ma troppo bassa per essere considerata iperinflazione? È forse il caso di andarci piano con le etichette.

L’attuale impennata dell’inflazione si basa su alcuni elementi in movimento, ma è per lo più ciclica, e le banche centrali hanno sia la capacità sia la volontà di affrontare il problema. Contrariamente a quanto riportato da alcuni, a mio avviso non siamo sulla soglia di un ritorno al periodo infernale dell’inflazione degli anni ‘70.

Per comprendere l’impennata dell’inflazione post-COVID, dobbiamo capire il periodo di bassa inflazione che l’ha preceduta. La spiegazione universalmente accettata per la tiepida ripresa successiva alla crisi finanziaria globale è la stagnazione secolare, ma a mio avviso la vera causa è stata la riduzione della leva finanziaria.

Mentre il sistema finanziario statunitense precipitava nell’abisso, il settore finanziario e le famiglie del Paese si sono resi conto di aver accumulato troppo debito. Aiutate dall’introduzione di una regolamentazione rigorosa, le banche hanno inasprito gli standard di prestito e le famiglie hanno trascorso il decennio successivo a ripagare i debiti.

Questo processo non si è limitato agli Stati Uniti: in Europa, la crisi esistenziale dell’Eurozona ha spinto il settore pubblico e privato a dare priorità al rimborso del debito e, attraverso il taper tantrum, anche la maggior parte dei mercati emergenti è stata coinvolta nella riduzione della leva finanziaria. Di conseguenza, il mondo post-GFC è stato un mondo di domanda carente e di risorse inutilizzate, un mondo decisamente non inflazionistico.

I tre motivi dietro il ritorno dell’inflazione

Ritengo che ci siano tre fattori principali alla base del ritorno dell’inflazione.

Il primo è strutturale: nel 2019, prima dell’epidemia di Coronavirus, ho sostenuto che il processo di riduzione della leva finanziaria nel mondo sviluppato aveva fatto il suo corso e che stavamo per entrare in un periodo di domanda strutturalmente più forte. Sono ancora convinto che questo sia il paradigma giusto, che getta le basi strutturali di un mondo più inflazionistico. Ciò però non significa che stiamo entrando in un mondo di inflazione incontrollata, ma piuttosto che le banche centrali devono aumentare i tassi per mantenere la domanda in linea con l’offerta.

Il secondo fattore alla base del ritorno dell’inflazione è semplicemente il surriscaldamento economico. Il nocciolo della questione è l’entità della risposta fiscale e monetaria fornita durante la recessione causata dall’epidemia di COVID: in parole povere, lo stimolo è stato troppo grande per essere assorbito dall’economia globale. Il fatto che ora abbiamo esaurito la manodopera la dice lunga. Fortunatamente, la gestione della domanda ciclica è un’altra cosa per la quale le banche centrali sono ben attrezzate: basta inasprire la politica monetaria e la domanda diminuisce.

In terzo luogo, ci sono alcuni problemi sul lato dell’offerta che non possono essere risolti dalle politiche monetarie. La maggior parte di questi problemi sono ben noti, come la carenza di semiconduttori e la guerra in Ucraina, che hanno portato rispettivamente a un’impennata dei prezzi dei veicoli e delle materie prime. Sebbene le banche centrali non siano attrezzate per affrontare i problemi dell’offerta, non dovremmo essere troppo pessimisti in questo ambito: in primo luogo, perché i problemi sono temporanei e le supply chain finiranno per normalizzarsi; in secondo luogo, perché le banche centrali sanno che non dovrebbero usare la politica monetaria per risolvere problemi temporanei delle supply chain stesse.

L’indipendenza delle banche centrali implica che la situazione attuale è diversa da quella degli anni ‘70

Tralasciando questi problemi legati all’offerta, la buona notizia è che le banche centrali hanno gli strumenti per controllare la maggior parte delle cause dell’inflazione odierna. La domanda è se sono disposte a utilizzare questi strumenti. La mia risposta è un sì inequivocabile – ed è in questo che le banche centrali moderne assomigliano poco a quelle degli anni ‘70. L’inflazione è una scelta sociale e, scegliendo banche centrali indipendenti con chiari target di inflazione e responsabilità, abbiamo scelto di tenere l’inflazione sotto controllo. Chiunque abbia dubbi sulla possibilità che le banche centrali come la Fed cadano preda delle pressioni politiche dovrebbe rivedere l’esperienza del ciclo di rialzi del 2018, quando l’allora presidente Donald Trump minacciò di licenziare il presidente della Federal Reserve Jerome Powell in risposta a quello che considerava un inasprimento indesiderato della politica monetaria. Il risultato? Powell ha mantenuto il suo posto, i tassi di interesse sono saliti e la Fed è rimasta indipendente.

Per gli operatori dei mercati finanziari, la cattiva notizia è che per riportare l’inflazione sotto controllo le banche centrali dovranno inasprire la politica monetaria fino al punto in cui la crescita rallenterà rispetto al suo potenziale e, date le condizioni iniziali, probabilmente si tratterà di un livello inferiore al potenziale. Quando la crescita rallenta bruscamente, in particolare quando è accompagnata da un aumento dei tassi di interesse, di solito si scatena la volatilità sui mercati finanziari. Temo che non ci sia modo di evitarlo. È il costo che dobbiamo sostenere per evitare l’inferno dell’inflazione del passato e, in un’ottica di lungo periodo, è francamente un prezzo modesto da pagare.