La Cina sta per diventare una fonte di inflazione globale?

-

Nel 1995, la Cina aveva una popolazione in età lavorativa di 830 milioni di persone, quasi il doppio di quella censita nel G7 di allora, e aumentava di circa 10 milioni di lavoratori all’anno con una manodopera estremamente a buon mercato. Secondo le stime di Oxford Economics, nel 1995 i lavoratori del settore manifatturiero cinese ricevevano un salario medio di 40 centesimi all’ora, pari ad appena il 2% della tariffa oraria media di 17 dollari pagata nei Paesi del G7.

L’adesione all’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) all’inizio degli anni Duemila ha abbassato le barriere commerciali e si è rivelata il catalizzatore di un periodo di industrializzazione spinta dalle esportazioni. Un numero crescente di aziende ha trasferito la produzione in Cina per i bassi costi di manodopera, esercitando una pressione al ribasso sui prezzi dei beni globali.

In prospettiva, però, si teme che questa dipendenza dalla Cina possa far regredire la spinta deflazionistica. Si prevede che la popolazione cinese in età lavorativa si ridurrà in modo significativo nei prossimi anni, mentre la rapida crescita dei salari, spinta anche dalla politica di “prosperità comune” del governo, implica che la manodopera non sarà più così conveniente come un tempo. Nel frattempo, questi cambiamenti strutturali si stanno verificando in un contesto di politiche commerciali più aggressive nei confronti della Cina, che minacciano di spezzare le catene di approvvigionamento.

I prezzi dei beni cinesi aumentano: quali gli effetti sull’inflazione?

Secondo le stime di Oxford Economics, negli ultimi 25 anni i salari nel settore manifatturiero sono aumentati di un incredibile 1700% in dollari USA.

Eppure, i salari continuano a restare molto più bassi rispetto ai mercati sviluppati e non superano di molto quelli di grandi Paesi emergenti come l’India e il Messico, che competono con la Cina.

Inoltre, a differenza di altri Paesi emergenti, la crescita dei salari in Cina sembra essere stata giustificata in gran parte da un rapido aumento della produttività. In altre parole, i lavoratori cinesi sono stati pagati di più per produrre più beni, mantenendo bassi i costi unitari del lavoro e diventando così ancora più competitivi rispetto agli altri Paesi emergenti.

Nonostante la rapida crescita dei salari, l’ultra-competitività della Cina le ha permesso di accaparrarsi una quota sempre maggiore del mercato mondiale delle esportazioni senza alcun evidente impatto inflazionistico sui prezzi dei beni globali. Da un altro punto di vista, la quota di reddito delle famiglie è rimasta bassa rispetto al resto del mondo, contribuendo a mantenere bassi i costi di produzione. Vale la pena notare che questo è stato il motivo principale per cui i tentativi del governo di riequilibrare la domanda interna dagli investimenti ai consumi sono falliti.

La priorità alla competitività esterna e la forte disuguaglianza di reddito ha dato origine alla nuova politica di “prosperità comune” del governo, parte della serie di annunci economici e normativi del 2021.

L’importanza della “prosperità comune” per l’inflazione globale

Se la “prosperità comune” portasse ad aumenti salariali imposti a livello centrale che superano di gran lunga la produttività, allora potrebbero emergere dei problemi. L’aumento del costo del lavoro tende storicamente a provocare un deterioramento della competitività esterna, con conseguente sostituzione delle importazioni e distruzione dell’industria nazionale.

Nel lungo periodo, un simile scenario potrebbe causare lo spostamento della produzione verso altri mercati più competitivi, come il Vietnam. Tuttavia, nel breve periodo, il dominio della Cina in molti settori renderebbe difficile per i consumatori diversificare rapidamente l’approvvigionamento verso altri Paesi, con conseguente aumento dei prezzi dei beni a livello globale.

La serie di riforme varate da Pechino l’anno scorso comprendeva misure volte a migliorare le condizioni di lavoro e i tassi di retribuzione nella gig economy. Ad esempio, la società di ride-hailing Didi ha aumentato del 50% le commissioni per gli autisti. Dato che è improbabile che possano aumentare il numero di viaggi che compiono, questo è esattamente il tipo di aumenti salariali che distruggono la produttività, causando pressioni inflazionistiche.

Il rischio di una rapida crescita dei salari superiore alla produttività deve essere monitorato attentamente, ma non ci aspettiamo che si verifichi. Le recenti riforme della gig economy vanno viste nel contesto di una maggiore regolamentazione globale dei nuovi settori, che non è necessariamente un’indicazione della direzione che seguiranno i policymaker in Cina. In effetti, anche nel Regno Unito i dipendenti delle società di ride-hailing hanno ottenuto migliori condizioni di lavoro.

La maggior parte delle altre recenti riforme annunciate dal governo cinese sono rimaste coerenti con il tentativo di aumentare i livelli di reddito e di qualità della vita attraverso lo sviluppo economico e la riallocazione del capitale da settori improduttivi, come quello immobiliare, verso industrie nuove ed emergenti. Non si sa se queste politiche riusciranno a incrementare il reddito disponibile e i consumi in futuro, ma è improbabile che provochino un forte impulso inflazionistico.

Ma che dire della contrazione della forza lavoro? Nonostante l’abolizione della politica del figlio unico nel 2016, il basso tasso di natalità della Cina permette di avere un’idea abbastanza precisa di come andranno le cose e la maggior parte delle proiezioni prevede che la forza lavoro si ridurrà di oltre il 10% nei prossimi due decenni. Tuttavia, non è chiaro se il calo della popolazione cinese in età lavorativa eserciterà meccanicamente una pressione al rialzo sui salari locali e sui prezzi dei beni globali.

Non entreremo nel merito di questo dibattito, ma esistono esempi reali di economie che hanno subito un calo della popolazione in età lavorativa senza alcun impatto apparente sui prezzi alla produzione o sull’inflazione, né a livello nazionale né nel resto del mondo. Il Giappone ad esempio è un importante esportatore asiatico che da tempo soffre di un calo demografico.

Il vero, principale rischio d’inflazione globale resta la geopolitica.

L’interruzione delle catene di approvvigionamento globali durante la pandemia di Covid-19 e le linee di frattura aperte dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, hanno fatto sì che le richieste di una maggiore sicurezza delle catene di approvvigionamento diventassero sempre più forti e ci sono alcuni esempi di aziende che hanno iniziato a trasferirsi dalla Cina. Spostare la produzione, o anche solo creare hub produttivi regionali, comporta un costo che le aziende con potere di determinazione dei prezzi potrebbero trasferire ai consumatori. È questa la grande minaccia per i prezzi dei beni globali, non il mercato del lavoro cinese.