Si prospetta il ritorno della crisi del debito sovrano europeo? I possibili scenari

Michele Sansone, Country Manager di iBanFirst -

2023: il ritorno della crisi del debito sovrano? Per la sesta volta in meno di un anno, la Banca Centrale Europea ha aumentato i suoi tre tassi di interesse di riferimento. Questa politica potrebbe essere mantenuta nei prossimi mesi, dato il livello persistentemente alto dell’inflazione di fondo. È l’unica leva per combattere l’inflazione strutturale, uno scenario che presenta un forte impatto sulla sostenibilità del nostro debito e dei rendimenti obbligazionari. Il debito pubblico rimane a un livello particolarmente elevato in Europa, anche se si registra un leggero calo, considerando l’aumento del PIL.

Un brutto remake del 2012?

All’inizio dell’anno, gli investitori e i media anglosassoni hanno lanciato l’allarme sul rischio potenziale di una nuova crisi del debito sovrano nell’eurozona. E come nel 2012, sarebbe probabilmente iniziata in Italia, da tradizione l’anello debole dell’eurozona. Il Paese presenta tutti gli aspetti potenziali per una crisi: una bassa crescita potenziale (da decenni), un governo di estrema destra e, soprattutto, un livello di debito pubblico che è salito alle stelle, dal 103% del PIL nel 2007 al 147% del PIL nel 2022. Nella zona euro, solo la Grecia ha un debito pubblico molto più alto del 178,8% del PIL. Ciò si può spiegare con il brutale aggiustamento strutturale attuato dopo la crisi greca sotto l’egida del Fondo Monetario Internazionale, che è stato, indubbiamente, un errore.

Dall’altra parte per pochi il debito rimane ancorato al di sotto della soglia simbolica del 60% del PIL: 49% in Irlanda, 24,6 in Lussemburgo e addirittura 17% in Estonia. Prevedibilmente, l’aumento del debito pubblico fa temere che una crisi del debito sovrano possa riemergere quest’anno o il prossimo. A nostro avviso, un remake del 2012 è altamente improbabile.

Uno stress finanziario contenuto

In primo luogo, i tassi di prestito stanno effettivamente aumentando, ma ciò che conta è il livello di stress finanziario che al momento rimane contenuto. Se guardiamo allo spread tra Germania e Italia (che misura anche il rischio di frammentazione dell’eurozona), attualmente si aggira intorno all’1,8% – lontano dal picco del 2022 del 2,5%. Siamo addirittura lontani anni luce dai livelli del 2012 (superiori al 5%).

La Banca Centrale Europea ha anche creato un indicatore di stress finanziario sulla scia della crisi sovrana europea, basato su una quindicina di indicatori di mercato (come tassi di cambio, tassi di credito e spread). Questo ci permette di sapere se la politica monetaria si trasmette efficacemente al resto dell’economia, in particolare al nucleo e alla periferia dell’eurozona. L’indicatore di rischio sistemico sta scendendo intorno allo 0,2 rispetto allo 0,5 del picco del 2022.

In secondo luogo, l’appetito degli investitori istituzionali per il debito italiano rimane forte. Recentemente, la domanda per un’emissione di buoni del tesoro italiani a 30 anni ha raggiunto i 26,7 miliardi di euro a fronte di un obiettivo di 5 miliardi. Si tratta di un importo cinque volte superiore alle aspettative. Lo stesso vale per la prima sindacazione dell’anno: su una scadenza a 20 anni, la domanda ha raggiunto 26,5 miliardi di euro per un obiettivo di 7 miliardi. Non si può quindi dire che gli investitori siano diffidenti.

Infine, il costo del rifinanziamento del debito in valore effettivo (cioè tenendo conto del tasso di inflazione) è negativo per quasi tutti i Paesi europei.

Nel 2012, prima che la BCE attivasse tutti i suoi meccanismi per rassicurare il mercato, era intorno allo 0,6-0,8%. E anche a quel tasso era già gestibile per le finanze pubbliche.

Quali sono le conseguenze per l’Euro?

A causa dell’assenza di recessione nell’Eurozona (con una crescita prevista intorno allo 0,5-0,6% quest’anno) e delle tensioni sul mercato obbligazionario, la BCE è libera di aumentare i suoi tassi di riferimento quanto necessario. Ultima dimostrazione di questa politica: il 20 marzo la BCE ha annunciato un nuovo aumento di 50 punti base dei suoi tassi di riferimento (dopo averli già aumentati di 300 punti base a partire da luglio 2022).

È improbabile che la BCE cambi politica in futuro. Infatti, anche se il trend è in miglioramento, l’inflazione rimane elevata ad aprile 2023: gli ultimi dati diffusi mostrano un tasso di inflazione del 6,9% annuo, rispetto all’8,5% del mese precedente. Siamo ancora lontani dall’obiettivo del 2%.

Tuttavia, il compito della Banca Centrale e di Christine Lagarde è ancora impegnativo. Da un lato, un continuo aumento dei tassi di riferimento sarebbe benvenuto per l’euro. Allo stesso tempo, se nel lungo periodo i principali indicatori della salute economica dell’euro sono ovviamente ampiamente correlati al tasso di inflazione e alla salute economica della zona, un debito pubblico massiccio (aumentato dai tassi di riferimento elevati) invierebbe un segnale negativo agli investitori.

Per la BCE è un’equazione che sembra più che mai complessa da risolvere.