Terre d’Oltrepò. Tradizione e innovazione nel mondo del vino. Intervista a Umberto Callegari

-

Il mercato del vino italiano è un affascinante mondo in cui tradizione e innovazione si fondono per creare un’esperienza unica. Le etichette italiane raccontano storie di territorio, cultura e passione. Le cantine, spesso gestite da famiglie per generazioni, sono autentiche custodi di tradizioni millenarie. Ma nonostante la forte radicazione nella storia, il mercato del vino italiano è tutto tranne che statico: nuove generazioni di enologi stanno portando innovazione e creatività nel settore. Le bottiglie italiane non sono solo sinonimo di eccellenza, ma anche di avventura e sorpresa.

In sintesi, il mercato del vino italiano è un viaggio emozionante attraverso paesaggi pittoreschi, sapori straordinari e una cultura che celebra la gioia di vivere. Ogni bottiglia è un invito a esplorare un pezzo della storia e della passione che rendono il vino italiano così unico e apprezzato in tutto il mondo. Naturalmente ogni bottiglia ha una storia da raccontare, un po’ come un romanzo appassionante. In fondo, il vino italiano non è solo un vino eccezionale … è soprattutto un’esperienza che delizia e coinvolge in ogni occasione.

L’Oltrepò

L’Oltrepò con i suoi paesaggi collinari, il clima favorevole alla coltivazione delle viti e la produzione di vini di qualità è una terra ricca di tradizione e passione per la viticoltura che risale all’epoca romana, quando i vigneti vennero introdotti in questa regione. Tuttavia, la vera crescita dell’industria vinicola ebbe luogo nel Medioevo, quando i monaci benedettini e cistercensi iniziarono a piantare vigneti nei monasteri della zona.

Nel corso dei secoli, la viticoltura nell’Oltrepò si è sviluppata secondo pratiche tradizionali. Le famiglie contadine hanno tramandato le loro conoscenze di generazione in generazione, affinando le tecniche di coltivazione delle viti e di produzione del vino.

La regione è nota per la coltivazione di varietà di uve autoctone come la Barbera, la Bonarda e il Pinot Nero. Varietà che riflettono il carattere unico del terroir locale e sono utilizzate per produrre una varietà di vini, dai rossi corposi ai bianchi aromatici.

Oggi, la storia del vino dell’Oltrepò continua a evolversi, con un connubio di tradizione e innovazione. Le cantine della zona accolgono visitatori desiderosi di scoprire il fascino di questa terra vinicola e assaporare i frutti del lavoro delle generazioni che l’hanno plasmata nel corso del tempo.

Intervista a Umberto Callegari, CEO di Terre d’Oltrepò

Dottor Callegari, durante una precedente intervista in cui le chiedevano che cosa l’avesse spinta ad accettare l’incarico di CEO di Terre d’Oltrepò, lei ha risposto:

“È stata una scelta di cuore, essendo nato e cresciuto in Oltrepò era logico arrivare alla più grande cantina cooperativa della Lombardia: mi ero sempre chiesto come fosse possibile che, mentre il vino italiano ha avuto uno sviluppo così incredibile nel mondo, l’Oltrepò non lo avesse ancora avuto”.

Sono passati solo 4 mesi, ma sembra di vedere già un impatto tangibile del suo operato. Ci vuole raccontare come si muove il mercato del vino italiano?

“Il vino è la quintessenza dei prodotti italiani, il prodotto alimentare a più alta propensione di export. Un’assoluta eccellenza, la propagazione della cultura italiana: ne deriva che ne acquisisce pregi e difetti… I pregi sono quelli della incredibile capacità artistica, la delicatezza, l’eleganza, la diversità… I difetti forse sono solo le idiosincrasie, gli effetti di un sistema culturale italiano molto orgoglioso, molto differente, anche molto polverizzato, perciò poco capace di divenire un sistema.

Il vino italiano è il prodotto più esportato d’Italia e ha tre volte la propensione all’export di qualsiasi altro prodotto dell’agrifood: il Parmigiano, i pomodorini, l’olio hanno circa il 27% di propensione export. Il vino il 66%. La quota dell’Italia sulle importazioni mondiali nel 2021 ha raggiunto il 22% della domanda mondiale, e una penetrazione sempre più efficace, proprio nei segmenti di altissima qualità”.

Mi ha colpito il termine “idiosincrasia” cui lei ha accennato, vuole chiarirmi il concetto?

“Le idiosincrasie sono quelle afferenti il patrimonio culturale italiano. L’Italia è un Paese dalle centinaia di centri culturali, è un caso più unico che raro. Ogni centro ha un orgoglio ed una forza culturale che spesso scadono nel campanilismo. Da questo deriva la grande quantità di artisti e di aziende private, ma la bassissima qualità del sistema italiano. Il Made in Italy stesso non è un sistema, è l’insieme non sistemico di singole eccellenze. È una somma lineare. Mentre il sistema, la rete, quando è reale è caratterizzata da una crescita esponenziale in cui il valore del sistema risulta calcolabile come il quadrato degli utenti o dei gangli connessi. Quando cerco di spiegare l’Italia a un americano o a un inglese, gli parlo non solo della Toscana, ma di Siena, per cui tra Firenze, Livorno, Pisa la gente è completamente diversa. A Siena non dicono “Io sono di Siena”, ma “Io sono della Torre, della Selva, dell’Istrice…”.

Capisco, ma non si può dire che questo orgoglio cittadino non abbia prodotto anche dei grandi frutti nel tempo

“Proprio vero, questa estrema diversità dà origine alla nostra grande creatività. Non è un caso che la Toscana, così diversa ad esempio dalla Lombardia, sia stata la culla del Rinascimento con grande capacità di mecenatismo e di sviluppo delle arti… ma poi Leonardo da Vinci è arrivato alla corte degli Sforza e anche la Lombardia ha dato il suo contributo.

Però resta il fatto che oggi non siamo in grado di fare sistema, e questo si riflette anche nel mondo del vino. Il vino italiano vale in tutto circa 14 miliardi di dollari: il primo produttore italiano, che è CIV,  fa 700 milioni, il primo produttore mondiale, Castel Group che è francese, genera circa 16 miliardi di fatturato annui da solo.

Il vino italiano è nato grazie alle famiglie nobili o ai grandi imprenditori ed è rimasto una prerogativa di famiglie nobili o imprenditori, e, come tutti i business familiari, se va bene nasce una generazione è illuminata, se ti va male rischi buttare via il lavoro delle precedenti. Una generazione crea e un’altra distrugge. Ad oggi temo ci sia pochissima managerialità”.

Lo spirito di imprenditorialità non s’inventa in pochi anni. Dove lo vede meglio sviluppato in Italia?

“Non è un caso che le bollicine italiane siamo nate a Trento, Brescia e in Veneto, perché sono i tre distretti con più imprenditorialità. Insisto nel dire che in Italia c’è invece una diffusa incapacità di fare sistema, quindi ci accodiamo sempre ai signori e agli imprenditori che fanno da catalizzatore, ma non abbiamo un vero elemento catalizzatore sistemico, soprattutto all’interno del sistema vino.

Considerando tutti i cambiamenti che si sono verificati in ogni industria, appare evidente che anche il vino, sulla spinta dell’evoluzione economica e delle dinamiche di consumo che spingono e caratterizzano il settore, sia all’inizio di un profondo cambiamento ed innovazione. Mi riferisco ad esempio a dinamiche di acquisizione ed aggregazione. L’aggregazione è un fenomeno necessario, si è verificata in tutte le “Industry” e succederà anche nel vino italiano. Che sia fatta da gruppi italiani per gruppi italiani o da dei gruppi di partecipazione estera che comprino degli asset italiani, poco importa”.

In effetti ci sono dei bei gruppi in Italia che potrebbero essere trainanti per tutto il settore

“Noi vediamo che il primo gruppo è CIV, il secondo è Argea (che è nato dall’aggregazione di Zaccagnini Botter e Mondo del vino) a livello finanziario, creando un gruppo da circa 500 milioni, che però non sta rispettando le promesse e le premesse perché le aggregazioni esclusivamente finanziarie hanno un tasso di mortalità di circa il 95%. Esattamente come quando Daimler Benz acquisì Chrysler: spese 10 volte tanto la Fiat, ma non fece un’aggregazione culturale e infatti fallì con una svalutazione delle azioni di circa il 60%. Mentre Marchionne che puntò su di un’aggregazione culturale…”

Decisamente interessante come parallelo…

“Sì, ha ragione, l’aggregazione accadrà. Il vino che diminuirà volume e aumenterà di valore sarà il risultato di queste grandi aggregazioni, probabilmente sull’esperienza dei francesi. Se pensiamo che LVMH, che ha la gran parte degli champagne, ha comprato la vigna di Leonardo a Milano…

O noi creiamo un polo industriale che prenda ispirazione dei modelli che funzionano, quindi la Champagne, la Borgogna, la Nuova Zelanda… che sono un centro di pressatura che racchiude l’investimento industriale, riducendo il capital burn e alzando il ritorno sul capitale investito, per dare delle operations ai vari piccoli produttori … oppure saremo comperati. Dobbiamo avere la scala produttiva e la leva operativa oppure saremo comperati dagli altri”.

Per concludere può darci qualche dato quantitativo sul vostro mercato?

“Dico due dati: uno, dal 2018 ad oggi sono prodotti commercializzati in Italia 37 milioni di bottiglie di metodo classico flat perché manca il 75% del pinot nero, che è in Oltrepò. La Franciacorta è 2,200 ettari e non ha più Pinot Nero e non ha più Chardonnay; Trento non ha più Pinot Nero e non ha più Chardonnay; l’alta Langa non ha più Pinot Nero e non ha più Chardonnay.

Solo l’Oltrepò ha Pinot Nero, quindi, è ora di creare un polo industriale che faccia da elemento catalizzatore: tra l’altro abbiamo la possibilità di aggregare a livello culturale, perché l’Oltrepò è 13.000 ettari e altri 6.000 se consideriamo i colli piacentini, quindi un territorio con una leva di circa 20.000 ettari che ha la possibilità di avere un unico centro industriale che faccia vino per sé, per i soci, ma soprattutto per gli altri.

La missione di TDO (Terre d’Oltrepò) è la creazione di un polo vinicolo industriale integrato e sostenibile che possa catalizzare e valorizzare le risorse inespresse del territorio. Il modello fa riferimento è quello dello Champagne, dove un singolo centro di pressatura riesce a catalizzare e incrementare la capacità produttiva dell’area. Il nostro obiettivo è aumentare la capacità produttiva (e la leva operativa dell’azienda) acquisendo nuovi soci oltre i 5.000 ettari di contribuzione attuale (su 13.000 di Oltrepò Pavese e 6.000 di Colli Piacentini). La volontà è fornire servizio di capacità industriale per noi, i nostri partners ed i nostri soci.”

L’idea mi parrebbe geniale, ma come si può fare per concretizzarla?

“Il rilancio del Gruppo è principalmente focalizzato all’incremento della capacità produttiva e industriale. Focus fondamentale è la qualità del processo produttivo che dovrà essere trasparente e certificato ad ogni passo. La volontà è quella di ridurre la dispersione del capitale investito nella zona ed aumentare il ROIC. Ad oggi il costo del capitale investito in operazioni vinicole è sicuramente più alto rispetto al suo ritorno. Questo a causa della polverizzazione delle aziende che incapaci di fare sistema generano un capital burn insostenibile. Solo l’aggregazione della leva operativa e della capacità industriale potrà massimizzare il ROIC e generare benessere e nuove possibilità per i produttori i soci e i partners”.