Mercati, attesa per riunione della Fed e trimestrali big tech USA

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Un anno fa, di questi tempi, la recessione sembrava inevitabile.

Era ritenuta molto probabile da oltre la metà degli economisti intervistati nel sondaggio periodico della National Association for Business. Dodici mesi dopo, il 91% degli economisti intervistati ritiene che le probabilità di un rallentamento dell’economia americana nei prossimi dodici mesi siano del 50% o meno.

Un ottimismo condiviso anche dai non specialisti, in gennaio l’indice del sentiment dei consumatori ha raggiunto il livello più alto dal luglio 2021, negli ultimi due mesi il sentiment ha realizzato il maggiore aumento dal 1991. La percezione positiva dei consumatori è stata motivata dal rafforzamento delle aspettative di reddito e dalle migliori prospettive dell’inflazione.

Nell’ultimo trimestre del 2023 l’economia americana è cresciuta al tasso annualizzato del 3,3%, inferiore al 4,9% dei tre mesi precedenti ma superiore alle attese. Anche la crescita del PIL nell’intero anno, 3,1%, è stata superiore alle aspettative e i mercati festeggiano, lo S&P 500 e il Nasdaq 100 hanno messo a segno nuovi massimi, gli investitori continuano a scommettere sulle potenzialità della tecnologia e sui titoli growth.

La delusione per lo spostamento in avanti dei primi tagli dei tassi è più che compensata dalle prospettive degli utili in un ambiente economico che sta dimostrando una notevole capacità di resistenza all’inasprimento delle condizioni finanziarie. L’inflazione rallenta, i prezzi al consumo sono aumentati del +1,7% nel quarto trimestre, in calo rispetto al 2,6% di tre mesi prima. L’inflazione di base, che esclude i prezzi di beni alimentari e dei carburanti, è sotto il fatidico 2%.

Molto diversa la situazione in Europa: nel 2008 e del 2011 furono i debiti dei paesi periferici a costare all’Eurozona una doppia recessione, oggi i problemi non vengono dalla periferia ma dal centro, si aprono come voragini gli output gap nelle economie di Francia e Germania.

L’ultimo dato PMI manifatturiero della Francia, 43,2, continua a evidenziare una contrazione in atto da tempo, l’ultima lettura superiore a 50 risale a dodici mesi fa. L’industria manifatturiera tedesca se la passa anche peggio, la manifattura è in difficoltà dall’estate del 2022, l’automotive anche da prima. La tendenza degli indicatori è moderatamente positiva ma non lo è lo scenario complessivo e, nel frattempo, i due paesi sono attraversati da minacciose tensioni sociali.

La Banca Centrale Europea continua a tenere gli occhi bassi sul suo manuale, la decisione di lasciare i tassi invariati non è stata una sorpresa e l’appuntamento è spostato a marzo; se il calo della domanda dovesse proseguire, dovrà pur muovere i banchieri di Francoforte a una reazione. I prezzi dei futures scontano tagli nel 2024 per un totale di 150 punti base.

Nel primo meeting del 2024, Christine Lagarde ha riconosciuto il rallentamento nella crescita dei salari e che l’inflazione è stata “più debole del previsto”, aprendo alla possibilità di una riduzione dei tassi d’interesse. I rischi ai quali Lagarde ha fatto riferimento sono quelli dell’incertezza geopolitica, le interruzioni delle catene della fornitura come, ad esempio, quelle causate dalla crisi nel Mar Rosso, potranno avere ricadute sui prezzi.

L’entusiasmo dei mercati andrebbe temperato con la cautela, c’è il rischio della rappresentazione di uno scenario ideale che porta però a trascurare la possibilità di sorprese, di esiti diversi. Le tensioni nel Mar Rosso e le proteste sindacali in Francia e Germania possono generare pressioni sui costi e ricadute sui prezzi finali o sui margini.

Il sistema economico risponde sempre con fisiologico ritardo all’inasprimento delle politiche monetarie, nelle ultime tre contrazioni sono stati necessari dai nove ai diciotto mesi dall’ultimo aumento dei tassi della Fed per registrare il rallentamento dell’attività economica. Sono passati circa tre mesi da quello che riteniamo sia stato l’ultimo rialzo dei tassi negli Stati Uniti.

Poi c’è l’inversione della curva. Dagli anni Settanta, l’innaturale condizione dei tassi a breve più alti di quelli a più lungo termine ha sempre anticipato le recessioni ma, anche in questo caso, con ampio intervallo temporale: rispetto alle inversioni della struttura delle scadenze nel 1988 e nel 1989, la recessione si è presentata negli anni 1990 e 1991. La curva dei rendimenti si è nuovamente invertita nel 1999 e all’inizio del 2000, la recessione si è verificata nel 2001 e, infine, dopo l’inversione della curva nel 2006 la recessione è cominciata a fine 2007, durata fino al novembre 2009.

È invece possibile che la recessione sia lieve, i grandi gruppi hanno approfittato dei minimi storici dei tassi a lungo termine per finanziarsi con l’emissione di carta a basso costo. Non vale lo stesso per le aziende di piccole e medie dimensioni, generalmente i loro finanziamenti sono a più breve termine, al rinnovo o alla rinegoziazione dei crediti i verrà avvertito pienamente il peso delle più severe condizioni finanziarie.

La cautela è suggerita anche dallo S&P 500 tornato a livelli record dopo due anni. Il breakdown delle performance dei settori rivela che solo il settore tecnologico ha messo a segno lo stesso risultato, gli altri settori sono scambiati mediamente al 15% al di sotto del loro valore storico.

Questa settimana cinque società Big Tech, dal valore complessivo di mercato di oltre dieci trilioni di dollari, pubblicheranno i risultati trimestrali e sempre in settimana ci sarà il meeting della Federal Reserve. L’attesa non è tanto su qualche decisione sui tassi, non attesa, quanto sulle dichiarazioni che rilascerà Jerome Powell nella conferenza stampa. Le sue parole saranno esaminate con acribia perché dalle prospettive dei tassi, dal tempo e dall’intensità degli attesi allentamenti monetari dipendono i destini dello S&P 500, pericolosamente sbilanciato, dell’economia e del mercato obbligazionario che in queste settimane ha perso smalto.

Non sappiamo cosa accadrà nel 2024 ma possiamo ragionevolmente ritenere che non sarà l’anno della liquidità come è stato per buona parte del 2023. Se prevarranno le condizioni dell’atterraggio morbido ne beneficeranno sia le azioni che le obbligazioni. L’ipotesi del no-landing, valida per la sola economia americana, è meno probabile ma in questo caso ne avranno vantaggio le azioni ma non le obbligazioni. Poco probabile anche lo scenario peggiore, quello dell’atterraggio duro, che penalizzerebbe le azioni a favore delle obbligazioni.