8 marzo. Un vero rinnovamento non può che passare attraverso il confronto tra generi
8 marzo —
Un vero rinnovamento non può che passare attraverso il confronto tra generi, tenendo conto che la questione di genere rappresenta la linea di demarcazione tra un’evoluzione della società che sviluppa e coinvolge le diverse risorse e talenti e una involuzione della stessa in cui le donne rimangono oggetti a disposizione del potere che resta ancora prettamente maschile.
La società di oggi, infatti, ci consegna ancora l’immagine di una donna su cui gravano molte problematiche del nostro tempo, il lavoro stesso continua ad essere caratterizzato da una competitività che nella sostanza rimane maschile.
L’Italia spesso si presenta come un Paese bloccato, che non cresce, che non investe nella sua parte più innovativa e dinamica. Occorre prestare maggiore attenzione alla vita quotidiana delle donne che da sempre si sono fatte carico di un welfare familista e della mancanza dei relativi servizi; l’Italia rientra infatti nel modello mediterraneo di tipo “familista”, dove la famiglia è fornitrice di cura e assistenza ai propri componenti e lo Stato assume un ruolo marginale e residuale. Ma qualcosa sta cambiando, soprattutto per le giovani generazioni.
(Credits. Photo by Jonathan Borba on Unsplash)
Le nuove politiche per la famiglia
Le nuove politiche per la famiglia vanno concretizzate nella creazione di servizi flessibili che garantiscano alle donne opzioni concrete per organizzare al meglio il proprio tempo e per favorire pari opportunità. Bisogna investire di più negli asili, nelle politiche per l’assistenza degli anziani, nelle politiche per le giovani coppie. Occorre agire per restituire all’uomo uno spazio nella vita privata e alla donna uno spazio in quella pubblica proponendo una relazione più autentica nella distribuzione di compiti e ruoli.
Il tema della violenza di genere
“Ho detto no. Come uscire dalla violenza di genere”. Nella Giornata internazionale della donna, l’Associazione Lombarda dei Giornalisti ospita alle 11, nella sua sede di viale Monte Santo 7 a Milano, la presentazione del libro “Ho detto no. Come uscire dalla violenza di genere” (ed. Il Sole 24 Ore), di Chiara Di Cristofaro e Simona Rossitto. Con le autrici ci sono Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano, Marta Buti, avvocata penalista – Rete avvocate D.i.Re, Nicoletta Parvis, avvocata penalista del Foro di Milano ed esperta di violenza sulle donne, Stefania Spanò (Anarkikka), fumettista e attivista e Mimma Caligaris della commissione Pari Opportunità dell’Fnsi.
Intervento di Alessia Potecchi
Alessia Potecchi ci parla della donna nella Resistenza.
In occasione dell’8 marzo vorrei ricordare una delle pagine più importanti della storia del nostro Paese dove le donne hanno giocato e avuto un ruolo fondamentale. Le donne nella Resistenza Italiana rappresentarono un punto fermo e indispensabile per il movimento partigiano nella lotta contro il nazifascismo. Esse lasciarono i loro doveri di donne e di madri e lottarono per riconquistare la libertà e la giustizia del proprio paese ricoprendo ruoli di primaria importanza.
In tutte le città le donne partigiane lottavano quotidianamente per recuperare beni di prima necessità per il sostentamento dei compagni. Vi erano gruppi organizzati di donne che svolgevano propaganda antifascista, raccoglievano fondi ed organizzavano assistenza ai detenuti politici ed erano impegnate anche nel mantenimento delle comunicazioni oltre che nelle operazioni militari.
Le donne che parteciparono alla Resistenza, facevano parte di organizzazioni come i Gruppi di Azione Patriottica (GAP) e le Squadre di Azione Patriottica (SAP), e inoltre, fondarono dei Gruppi di Difesa della Donna, aperti a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica o religiosa, che volessero partecipare all’opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione, per garantire i diritti delle donne, sovente diventate capifamiglia, al posto dei mariti arruolati nell’esercito.
Dall’interno delle fabbriche dove avevano preso il posto degli uomini impegnati in guerra, organizzarono scioperi e manifestazioni contro il fascismo. I compiti ricoperti dalle donne nella Resistenza furono molteplici: fondarono squadre di primo soccorso per aiutare i feriti e gli ammalati, contribuirono nella raccolta di indumenti, cibo e medicinali, si occuparono dell’identificazione dei cadaveri e dell’assistenza ai familiari dei caduti.
Le donne erano inoltre indispensabili alla collettività partigiana: oltre che cucinare, lavare, cucire e assistere i feriti, partecipavano alle riunioni portando il loro contributo politico ed organizzativo e all’occasione sapevano anche cimentarsi con le armi. Particolarmente prezioso era il loro compito di comunicazione, con astuzia riuscivano sovente a passare dai posti di blocco nemici raggiungendo la meta prefissata, prendevano contatto con i militari e li informavano dei nuovi movimenti.
Le loro azioni erano soggette a rischio quanto quelle degli uomini e quando cadevano in mano nemica subivano le più atroci torture. Erano brave nel camuffare armi e munizioni, quando venivano fermate dai tedeschi con addosso qualcosa di compromettente, riuscivano spesso ad evitare la perquisizione, dichiarando compiti importanti da svolgere, familiari ammalati, bambini affamati da accudire. Parlando della sfera familiare le donne parlavano infatti una lingua universale capace di suscitare sentimenti e sensibilità nascoste.
Il ruolo della staffetta, era spesso ricoperto da giovani donne tra i 16 e i 18 anni, per il semplice fatto che si pensava destassero meno sospetti e che non venissero quindi sottoposte a perquisizione. Le Staffette avevano il compito di garantire i collegamenti tra le varie brigate e di mantenere i contatti fra i partigiani e le loro famiglie; in alcuni casi avevano anche il compito di accompagnare gli eventuali resistenti. Senza i collegamenti che loro assicuravano, tutto si sarebbe fermato ed ogni cosa sarebbe stata più difficile. All’interno della brigata, la staffetta aveva spesso anche il ruolo fondamentale di infermiera, tenendo i contatti con il medico e il farmacista per curare i soldati da pidocchi e dalle ferite procurate in battaglia.
Un compito molto pericoloso
Le Staffette non erano armate e per questo il loro compito era molto pericoloso. Il loro obiettivo era quello di passare inosservate, erano vestite in modo comune, ma con una borsa con doppio fondo, per nascondere tutto ciò che dovevano trasportare. Altri collegamenti che si rivelarono indispensabili sin dagli inizi della guerriglia erano quelli che tenevano le staffette tra città e montagna. Specie nei momenti più difficili, le staffette recuperavano e mettevano in salvo molti feriti e sbandati e ripristinavano quasi tutti i collegamenti che l’operazione nemica aveva interrotto.
Percorrevano chilometri in bicicletta, a piedi, talvolta in corriera e in camion, pigiate in un treno insieme al bestiame, per portare notizie, trasportare armi e munizioni, sotto la pioggia e il vento, tra i bombardamenti e i mitragliamenti, con il pericolo ogni volta di cadere nelle mani dei nazifascisti.
Durante gli spostamenti, erano sempre in prima linea, quando l’unità partigiana arrivava in prossimità di un centro abitato, era la staffetta che per prima entrava in paese per assicurarsi che non vi fossero nemici e dare il via libera ai partigiani, per proseguire nella loro avanzata. La figura della Staffetta fu molto rispettata e fu il ruolo più riconosciuto per la pericolosità e l’importanza.
Quando dovettero utilizzare le armi, le donne invasero all’epoca un mondo prettamente maschile, ma non lo fecero per sentirsi importanti, fu una questione di necessità in una situazione dove era giusto collaborare per una causa che coinvolgeva l’intera popolazione.
Nelle formazioni nei primi tempi vi furono delle contestazioni da parte di alcuni partigiani, contro la presenza femminile, ma alla fine anche i più scettici dovettero ricredersi. Le donne combattevano al fianco degli uomini, nelle montagne, al freddo, in alcuni casi si dedicavano a delle vere e proprie azioni di sabotaggio militare, mettendo a rischio la loro vita. Si venne a creare all’interno delle brigate un vero e proprio rapporto d’amicizia tra le donne e i partigiani, salvo alcune eccezioni che vennero denunciate e discusse severamente. Le donne portarono soprattutto un forte supporto morale, di speranza e di coraggio all’interno del gruppo, essenziale in quei momenti così difficili. Tante sono state le donne combattenti catturate e seviziate, portate in campi di concentramento e poi condannate a morte.
Per decenni a livello storiografico ed istituzionale il contributo delle donne alla Resistenza non è stato mai adeguatamente riconosciuto, rimanendo relegato ad un ruolo secondario, che scontava una visione in cui anche la Lotta di Liberazione veniva “declinata” al «maschile». Per questo si parla di Resistenza taciuta. Per citare alcuni dati furono 35.000 le “partigiane combattenti”, 20.000 le patriote, con funzioni di supporto, 70.000 le donne appartenenti ai Gruppi di Difesa.
La Memoria e l’8 marzo
Perché non deve essere solo un ricordo del passato, ma anche un tentativo forte di contestualizzare questo ricordo nel presente per farlo rivivere e per aiutarci ad affrontare anche questi nostri difficili tempi. Penso che parlare oggi di donne che hanno saputo donare se stesse per il nostro paese e che hanno dimostrato tanto coraggio e determinazione ci porti anche a riflettere su quanto ancora si possa e si debba fare per creare degli spazi sempre maggiori per far partecipare le donne a ruoli ed esperienze importanti, nel mondo delle professioni, nella politica, nel sindacato e come ancora siamo lontani da risultati significativi in questa direzione.
Lo abbiamo visto nell’esperienza della Resistenza, le donne hanno saputo e sanno dare e offrire tantissimo, sono coraggiose, determinate, sensibili, preparate e competenti, teniamolo ben presente in questo 8 marzo.
Alessia Potecchi