Ci vuole un fisico bestiale…

di Tiziano C. Bellemo * -

… anche per investire. Ecco alcune regole fondamentali per non sbagliare

“Ci vuole un fisico bestiale, per investir senza sbagliare”. Così suonava qualche anno fa la musica di attesa del centralino di una nota casa di intermediazione italiana, parafrasando la canzone di Luca Carboni.

Non si può che essere d’accordo su questa affermazione: investire è attività quantomeno complessa. In primis perché l’essere umano non è sistematicamente razionale, soprattutto nelle situazioni dove la componente emotiva gioca un ruolo di primo piano. E si sa che i mercati finanziari mettono spessissimo a dura prova i nervi degli investitori. In secondo luogo, perché prendere decisioni finanziarie, di recente, è diventato ancora più arduo a causa del fatto che gli episodi di crisi sui mercati sono diventati molto frequenti: negli ultimi 20 anni se ne può contare in media uno ogni quattro anni.

Ciò premesso, è possibile prepararsi e arrivare ad avere il “fisico bestiale” necessario a raggiungere l’obiettivo di investire in modo efficace? La risposta è, almeno fino a un certo punto, affermativa. Infatti, se da un lato alcuni degli individui più ricchi al mondo sono investitori professionisti, d’altro canto, se tutti potessero applicarsi per diventare investitori di successo, non avremmo un solo Warren Buffet e un solo George Soros, ma ne avremmo tantissimi. La realtà, come spesso avviene, sta allora un po’ a metà strada. È estremamente difficile assurgere al livello dei guru americani degli investimenti. Ma è comunque possibile imparare (soprattutto dai nostri errori) ed evitare di compiere leggerezze tali da compromettere il rendimento di medio e lungo termine dei nostri investimenti.

La prima e forse più importante lezione da acquisire è che il denaro va fatto lavorare, va cioè impiegato in modo attivo, tenuto conto (i) dei nostri vincoli temporali, (ii) dei nostri obiettivi e (iii) del nostro livello di tolleranza al rischio. Perseguire questo scopo, tuttavia, è assolutamente incompatibile con la ricerca ossessiva del cosiddetto market timing. Cercare il momento giusto per investire, ad esempio volendo individuare i minimi del mercato o un punto di svolta, è difficilissimo. Intanto perché ci sono eventi che non sono “investibili”, cioè che non sono prevedibili nella loro manifestazione o quantomeno nei modi con i quali si verificheranno. In secondo luogo perché ci saranno sempre motivi, ottimi ai nostri occhi, che ci suggeriscono di attendere. Gli effetti collaterali (sostanzialmente certi) della ricerca del market timing sono allora il differimento del momento nel quale il denaro viene messo al lavoro e la perdita di opportunità di investimento.

Un recente sondaggio del gruppo deVere1 conferma la premessa: oltre la metà degli errori che il panel degli investitori intervistati ammette di avere compiuto attiene a “non avere investito prima” (23%), “all’enfasi eccessiva sul breve termine” (20%) e “all’emotività” (15%) .

Se volessimo provare a misurare i rischi reali che l’insieme di questi errori ci fa correre basterebbe osservare i dati di lunghissimo periodo negli Usa: una strategia che, temendo il peggio, avesse chiuso le posizioni nelle fasi di panico, si sarebbe persa i vigorosi rimbalzi che tipicamente le seguono e avrebbe subito significative penalizzazioni del rendimento di lungo periodo rispetto a un semplice approccio buy & hold (vedere tabella qui sotto).

Leffetto delle cattive decisioni di timing

Paradossalmente, quindi, l’emotività che ci spingesse a dare attenzione eccessiva al breve termine ci esporrebbe a rischi maggiori rispetto a decisioni di investimento consapevoli che non vengono scalfite nemmeno da eventi di una certa rilevanza, ma modificate eventualmente solo nel medio/lungo termine.

La seconda lezione, che per certi versi scaturisce direttamente dal modo col quale ci poniamo di fronte all’investimento, è che non esiste una strategia che ci consenta di fare meglio del mercato su tutti gli orizzonti temporali e in ogni circostanza. Spesso acquistare titoli con valutazioni a sconto rispetto al loro prezzo è un buon criterio di scelta. Ma questo approccio non funziona sempre, come la storia ci ha insegnato, e comunque richiede pazienza e un arco di tempo adeguato a poter cogliere i frutti della rivalutazione.

In realtà, è bene non fare affidamento su un solo stile di investimento – considerato una panacea per ogni stagione – e imparare a diversificare anche per stili di gestione.

Ad esempio, nella fase attuale sarebbe sbagliato affidarsi unicamente a prodotti che perseguono rendimenti assoluti positivi. Piuttosto, occorrerebbe affiancare loro strategie di investimento direzionali e long-only, che offrano esposizione ai rendimenti di alcune asset class sulle quali vogliamo strategicamente essere investiti (per esempio alcuni mercati azionari), meglio se rappresentate da prodotti a gestione attiva che danno la possibilità di godere delle migliori condizioni di investimento durante l’intero ciclo di mercato.

L’altra lezione fondamentale fa riferimento alle nostre aspettative di rendimento: quanto sono ragionevoli?

Chiunque vorrebbe guadagnare molto, in poco tempo e rischiando poco. Ma “buoni” rendimenti non si coniugano con livelli di rischio bassi e contenuta volatilità perché la relazione tra gli uni e gli altri è positiva. Cioè, la possibilità di ottenere risultati degni di nota da un investimento è direttamente proporzionale al grado di rischio che esso comporta e all’orizzonte temporale che abbiamo di fronte. Strumenti che ci fossero presentati come veicoli in grado di perseguire rischio contenuto insieme a rendimenti “superiori” dovrebbero essere valutati attentamente.

Tornando all’attualità, le strategie adottate per generare ritorni assoluti positivi, decorrelati dai mercati di riferimento e con un basso grado di volatilità, sono un eccellente ingrediente della ricetta di un portafoglio efficiente nell’attuale scenario di investimento. Ma non se ne può sopravvalutare il contributo. Nei fatti, molte di esse non hanno dimostrato di poter tener fede a questo impegno, soprattutto in modo sistematico, a prescindere dalle condizioni di mercato. Le più redditizie, ad esempio, hanno inevitabilmente sofferto drawdown di una certa ampiezza, soprattutto nei momenti di correzione dei mercati di riferimento, mostrando così di avere anche un discreto grado di correlazione. Quelle meno rischiose, d’altra parte, hanno offerto rendimenti molto modesti.

Un ultimo precettto da tenere a mente e da assumere come benchmark per il nostro allenamento verso l’obiettivo di diventare investitori (più) evoluti è cercare di allungare il tempo col quale valutiamo la bontà dei nostri investimenti. Così facendo, dovremmo più difficilmente cadere preda dell’emotività, restando invece concentrati sulle decisioni strategiche che abbiamo assunto, dando al portafoglio che ne è scaturito il tempo necessario a produrre i ritorni attesi. Una ricerca di qualche anno fa di Paul B. Andreassen mostrava proprio che la possibilità di ottenere rendimenti più elevati era inversamente proporzionale alla frequenza con la quale l’investitore riceveva informazioni – e quindi potenzialmente interveniva – sul suo portafoglio2.

Benjamin Graham3 sosteneva che il problema principale di un investitore è rappresentato da se stesso. Credo sia lecito concludere dicendo che il punto di partenza per il nostro allenamento alla ricerca del “fisico bestiale” stia proprio in questa fondamentale e primaria consapevolezza.

* Senior advisor e docente Liuc

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Note
1) deVere Group – The top investment mistakes by high-net-worth individuals, 18 maggio 2016
2) James Surowiecki – Too much information. Fast Company, 30 novembre 2002
3) The Intelligent Investor, 1949