Cosa aspettarsi dalle azioni USA dopo le elezioni di midterm

Jeffrey Schulze -
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Mentre nel secondo trimestre di quest’anno veniva meno l’euforia legata alla riforma fiscale, contemporaneamente il muro di preoccupazioni del mercato continuava a crescere, mattoncino dopo mattoncino: dal possibile raggiungimento del picco degli utili alla guerra commerciale, dall’inflazione in aumento all’appiattimento della curva dei rendimenti, passando per le politiche più restrittive di Fed e BCE, un dollaro più forte, una potenziale crisi delle valute emergenti, l’Italexit e l’aumento dei deficit federali USA.

Tutta quest’ansia è ben lontana dall’entusiasmo di fine gennaio, quando i mercati sono decollati dopo l’approvazione della riforma fiscale. Le crescenti preoccupazioni degli investitori hanno spostato il sentiment del mercato dall’ottimismo al pessimismo.

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In realtà questa situazione, negli anni in cui si tengono le elezioni di midterm, è tutt’altro che anormale, anzi: storicamente durante l’anno elettorale i mercati si mostrano sempre titubanti, per poi sperimentare un rialzo con l’avvicinarsi delle elezioni e l’affievolirsi delle incertezze politiche (grafico).

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Una volta terminate le elezioni, gli investitori in genere si lasciano alle spalle le apprensioni e si adattano alla nuova realtà di mercato. Il periodo dopo le elezioni di midterm tende infatti ad essere discretamente positivo per i titoli azionari: dal 1950, nei 12 mesi dopo le elezioni di midterm non solo lo S&P 500 è salito in media del 15% ma, cosa ancora più importante, non si sono mai verificati rendimenti complessivi negativi. Una delle motivazioni di questo fenomeno sta nel forte legame che c’è tra cicli economici e presidenziali: si pensi che negli ultimi 70 anni gli USA non hanno mai avuto una recessione nel terzo anno di un mandato presidenziale.

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Crediamo che ciò sia perlopiù dovuto al modo in cui lo stimolo fiscale varia nelle diverse fasi del mandato. Il primo anno di presidenza, in particolare nel caso di un nuovo presidente, è caratterizzato dalla nomina di membri chiave del governo, dalle approvazioni da parte del Congresso e, cosa più importante, dallo sviluppo di un nuovo piano, che in genere include anche una serie di spese fiscali. Poiché lo stimolo vero e proprio in genere avviene nel secondo e terzo anno di presidenza, non sorprende che le recessioni siano rare negli anni centrali del mandato presidenziale.

Come era lecito attendersi, dunque, lo stimolo fiscale proveniente dalla recente riforma della tassazione ha cominciato da poco ad avere effetti sull’economia, e la maggior parte delle persone ha iniziato solo negli ultimi mesi a veder crescere il proprio stipendio. A tal proposito, il consenso generale è che per il secondo trimestre la crescita del PIL sarà del 3,4%, ovvero un significativo rialzo dal 2,2% del primo trimestre.

La storia ci dice chiaramente che una nuova flessione dell’economia, prima o poi, è inevitabile. Tuttavia, finché quel giorno fatale non arriverà, i mercati dovrebbero restare focalizzati sui fondamentali sottostanti. In questo momento, la maggior solidità degli utili e un’economia in generale miglioramento dovrebbero spingere in alto l’azionario entro la fine dell’anno.

Oggi in molti credono, sbagliando, che gli utili spettacolari del primo trimestre fossero dovuti solo alla riforma fiscale. Gli utili dello S&P 500, ad esempio, sono saliti del 26% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Tuttavia, anche escludendo dal calcolo i benefici una tantum della riforma fiscale, la crescita registrata è comunque pari a un impressionante 18%. Cosa ancor più notevole, a nostro parere, è la crescita del 7,5% del fatturato rispetto all’anno scorso. Siamo sui livelli più alti dalla crisi del 2008, e questo ci dice che le aziende USA stanno realmente crescendo. Dopo diversi anni di utili “di bassa qualità”, ottenuti perlopiù tramite tagli ai costi e riacquisto di azioni, una più solida crescita organica del fatturato e degli utili è un segnale molto positivo per la seconda parte dell’anno.

D’altra parte, un escalation delle tensioni sui dazi sembra diventata probabile. Gli investitori sono comprensibilmente preoccupati dagli effetti di questi crescenti attriti tra gli USA e i loro maggiori partner commerciali, ma noi crediamo che alla fine tutto si risolverà in delle schermaglie che non degenereranno in una guerra vera e propria.

Le relazioni tra Usa e Cina sembrano essere quelle più a rischio. Se l’escalation continuasse, a risentire di più sarebbero soprattutto alcuni settori più esposti. Pensiamo a General Motors, che nel 2017 ha venduto più veicoli in Cina che negli Stati Uniti, o ad Apple, che conta in Cina 310 milioni di utilizzatori di iPhone, più del doppio rispetto agli Stati Uniti.

Tuttavia, parliamo di problematiche più micro che macro. È vero che alcuni settori del mercato potrebbero sperimentare delle difficoltà se vi fosse un’escalation della guerra commerciale, ma altri invece beneficeranno del positivo contesto economico generale, e i mercati dovrebbero allargare lo sguardo oltre le tensioni commerciali.

Cerchiamo di spiegarci esaminando il peggiore dei casi possibili: se ogni dazio discusso fino ad oggi venisse implementato, e in seguito ogni paese colpito rispondesse con un dazio equivalente, il totale dovrebbe ammontare a 138 miliardi di dollari. Una cifra notevole certo, ma comunque ridotta se confrontata con lo stimolo fiscale iniettato recentemente nell’economia. Le esenzioni fiscali, la maggior spesa pubblica e il rimpatrio di profitti esteri sommano insieme circa 800 miliardi di dollari, sovrastando a nostro parere gli effetti negativi dei dazi.

Inoltre, nonostante i dazi, un numero crescente di piccole imprese USA sta preparando piani di espansione. La fiducia dei consumatori e dei CEO resta elevata. L’indice PMI New Orders del settore manifatturiero, che è un buon barometro del ciclo economico, da 13 mesi consecutivi registra valori più alti di 60: si tratta della striscia positiva più lunga dagli anni ’70, e sottolinea un perdurante trend al rialzo dell’attività economica. I prestiti in sofferenza nei settori del commercio e dell’industria sono in declino e gli standard creditizi si stanno ammorbidendo. L’andamento delle spese per gli investimenti sembra solido, e dovrebbe rappresentare un importante stimolo per l’azionario nella seconda parte dell’anno.

E non c’è solo l’attività delle imprese a rendere il quadro incoraggiante. Il mercato del lavoro è la locomotiva di questa ripresa. Il tasso di disoccupazione, al 3,8%, è vicino al suo livello più basso in 20 anni, e potrebbe raggiungere nel 2019 il livello più basso negli ultimi 50 anni. Per la prima volta – da quando si calcolano questi dati – ci sono più offerte di lavoro che disoccupati. In questo scenario, le retribuzioni continuano a salire: a maggio i salari sono aumentati del 2,7% e il totale delle ore lavorate del 2,1%, portando i guadagni annuali ad una crescita del 4,8% nell’ultimo anno. E questo è più che sufficiente per mantenere in salute la spesa dei consumatori per lungo tempo.

Tutto ciò ci indica un’economia e un mercato che si muoveranno ancora al rialzo nella seconda parte del 2018 e nella prima parte del 2019. Se il passato ci può dare degli indizi, ci aspettiamo che nel breve termine la volatilità rimarrà elevata, a causa dell’avvicinarsi delle elezioni di midterm e alle preoccupazioni per la guerra commerciale. Tuttavia, è importante che gli investitori si concentrino sui fondamentali, come i solidi utili organici e il rafforzamento dell’economia: potrebbe essere infatti il momento giusto per scavalcare il muro delle preoccupazioni e beneficiare di questi venti favorevoli.


Jeffrey Schulze – director e investment strategist – ClearBridge Investments (Legg Mason)