Evitare la Japanification

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Il Giappone è stato trascinato in un periodo lungo una generazione fatto di tassi di interesse negativi o vicini allo zero, in un contesto di invecchiamento significativo della popolazione. È difficile sfuggire ai tassi di interesse pari a zero, una volta all’interno di un contesto che l’ex Segretario del Tesoro americano Larry Summers ha definito “il buco nero dell’economia monetaria”. Inoltre, l’Europa combatte in tutti modi la forza gravitazionale che la spinge questo buco nero mentre agli Stati Uniti “manca solo un’altra recessione per ritrovarsi in una scenario di “Japanification”, come affermato recentemente da Summers. Allora, cosa può apprendere il resto del mondo dagli sforzi intrapresi dal Giappone?

Per tre decenni in Giappone abbiamo assistito alla “Japanification” – un fenomeno caratterizzato da inflazione stagnante, bassa crescita economica e un’economia a bassi tassi d’interesse – a causa del peggioramento del profilo demografico del paese. Nel periodo che va dallo scoppio della bolla del 1990 all’inizio di Abenomics nel 2012, i salari dei lavoratori, bonus esclusi, sono aumentati di uno scarso 7,5% e, se paragonati ai livelli toccati nella metà degli anni ’90, sono diminuiti drasticamente. In confronto, nello stesso periodo i salari orari medi americani sono quasi raddoppiati. Ad eccezione di un picco del 3,6% raggiunto nel 2014, il tasso di inflazione headline del Giappone si è mantenuto intorno allo zero per più di 20 anni.

Le persistenti pressioni deflazionistiche hanno innescato un incremento del debito pubblico, in quanto non c’è stato un cambiamento del valore di gran parte del debito governativo, mentre il gettito fiscale è entrato in una fase di stagnazione, in un contesto caratterizzato da crescita anemica e inflazione. Infatti, dopo tre decenni di lotta alla deflazione, il Giappone è uno dei paesi più indebitati al mondo, con un debito pubblico lordo che, nel 2018, si è attestato di poco al disotto del 240%, rispetto al 106,1% degli Stati Uniti e una media dell’85,1% per l’Eurozona.

Dopo l’escalation dei timori deflazionistici nel 2011-2012 a seguito dei Grandi terremoti nel Giappone Orientale, il Primo Ministro Abe e il Partito Liberale Democratico (LDP) sono tornati al potere, promettendo di aiutare il paese a superare il trend della “Japanification”, attraverso una combinazione di politica monetaria accomodante, politica fiscale flessibile e riforme strutturali. Il programma, conosciuto come Abenomics, ha riportato alcuni successi, tanto che Abe si è trasformato in uno dei primi ministri dal mandato più lungo nella storia del Giappone.

Le tanto attese tasse

Il 1 ottobre il Giappone ha imposto il tanto atteso aumento dell’IVA, portando l’aliquota dall’8% al 10%, il primo aumento dal 2014 e il quarto dal 1989. L’imposta sui consumi viene applicata a beni e servizi – ad eccezione dei prodotti alimentari e delle bevande –  e può anche finanziare lo stato sociale, e la scolarizzazione.

Soprattutto dopo le difficoltà economiche a seguito all’aumento del 3% del 2014, molti analisti ritengono che l’aumento fiscale del 2% sia stato un “auto goal”, a causa dell’impatto sui consumi e, di conseguenza, lo stesso si può dire il programma di reflazione di Abe. I dati dei supermercati indicano un immediato calo delle vendite tra il 10% e il 20% rispetto a un anno fa, fattore che suggerisce che queste preoccupazioni sono legittime.

Tuttavia, la decisione del governo non è priva di merito. Rispetto all’imposta sul reddito, l’imposta sui consumi ha il vantaggio di essere più efficiente, stabile e prevedibile. La misura crea una nuova base imponibile, a condizione che l’impatto possa essere attenuato attraverso un sostegno politico a breve termine, aggiungendo una fonte permanente di entrate per il governo e un ulteriore margine di flessibilità fiscale per il futuro.

I critici, inoltre, sottolineano che il tanto criticato aumento delle tasse del 2014 ha segnato il picco della traiettoria del debito pubblico giapponese, che da allora si è spostata lateralmente in percentuale del PIL. Il governo è stato anche in grado di procedere con l’aumento delle imposte perché la crescita economica del primo semestre è stata più sana del previsto (+1,3% nel secondo trimestre su base annua).

Il governo ha imparato da quanto accaduto nel 2014 e ha anticipato un aumento della volatilità dei consumi nei prossimi mesi con una serie di contromisure, tra cui incentivi per allontanare la spesa dal contante (il Giappone è uno dei maggiori utilizzatori di contante al mondo), e sostegno fiscale per le famiglie. Infatti, le misure di Abe tendono ad aiutare maggiormente le famiglie più giovani, visto che l’aumento della tassazione maggiormente sui consumatori più anziani, e riorienta le risorse verso una serie di programmi, come quello incentrato sull’istruzione gratuita.

Inoltre, il governo può contare su di una maggioranza in parlamento sufficientemente ampia per adottare, se necessario, nuove misure a breve termine, tra cui riforme del welfare volte a rassicurare la popolazione più anziana. Dopo tutto, il Partito Liberale Democratico potrà difficilmente ignorare il malcontento politico della generazione più anziana.

I vincoli delle banche centrali

Se da un lato il governo di Abe gode di una certa flessibilità politica nel gestire l’impatto dell’aumento dell’IVA, dall’altro la banca centrale giapponese deve affrontare maggiori vincoli, anche se di natura più politica. A differenza della Banca Nazionale Svizzera, la Bank of Japan (BoJ) non è autorizzata ad acquistare asset esteri e il governo Abe, pur avendo il potere legale di farlo, teme di irritare gli Stati Uniti e gli altri paesi del G7, quindi non lo farà. Nel frattempo, la BoJ sta progressivamente esaurendo gli asset nazionali da acquistare, dal momento che possiede quasi la metà dei titoli di stato disponibili sul mercato giapponese. Il passo successivo più logico è un ulteriore taglio dei tassi d’interesse in territorio negativo, con un chiaro sistema di riserva a livelli, simile a quello della BCE.

Il problema di questa opzione è il profondo disagio del settore bancario con tassi negativi. Dopo aver registrato un sostanziale calo dei margini di interesse da quando la BoJ ha introdotto tassi negativi nel 2016, la lobby bancaria giapponese continua ad opporsi a tagli più profondi e di recente ha persino accolto in modo favorevole la mancanza di misure adottate dalla Bank of Japan.

Tutto questo si traduce nel fatto che la prima risposta ad una sostanziale recessione può essere principalmente di natura fiscale e quindi la prossima mossa della BoJ potrebbe concentrarsi sul sostegno alle misure di stabilizzazione del governo Abe. A causa della persistente attività di lobbying da parte delle banche, alcuni ipotizzano che la BoJ potrebbe tagliare i tassi a breve termine e ridurre contemporaneamente gli acquisti di titoli giapponesi a lungo termine. Recentemente queste speculazioni hanno portato a un breve sell-off tecnico sul mercato dei titoli di stato.

Il risultato è che la BoJ non utilizzerà una larga parte del suo capitale politico per combattere questi vincoli, a meno che non si materializzi un grave rischio economico che la costringa a intervenire. Inoltre, ci aspettiamo che il rallentamento dell’aumento delle tasse non sarà così drammatico come cinque anni fa.

Invecchiamento della popolazione, tassi negative e immigrazione

Il principale driver della “Japanification” del paese è ovviamente l’invecchiamento demografico. L’indice di fecondità è al di sotto della soglia di ricambio e la popolazione totale sta invecchiando, diminuendo, in linea con quanto accade in altre nazioni, un esempio di cosa aspettarsi.

Oltre ad abbassare meccanicamente il tasso di crescita apparente attraverso un minor numero di lavoratori produttivi nell’economia, l’invecchiamento della popolazione incoraggia il risparmio eccessivo, in quanto la maggior parte dei lavoratori sta mettendo in piedi un piano pensionistico a reddito fisso. L’implacabile declino dei rendimenti obbligazionari giapponesi sembra essere semplicemente il risultato di una popolazione più attenta al risparmio e le richieste di liquidità di una generazione che sta diventando invecchiando sempre più e che si sta imponendo sulle nuove generazioni di lavoratori che vogliono costruirsi una famiglia.

Alla luce di ciò, possiamo affermare che la crescente repressione della BoJ per i degli asset è, implicitamente, un tentativo di limitare questa tendenza al risparmio. La BoJ non è certamente l’unica. Tassi negativi, invecchiamento della popolazione e cicli economici anemici sono presenti anche in Svizzera, Germania e nei paesi del nord Europa. La persistenza o l’intensità dei tassi negativi in queste economie, tuttavia, evidenzia i limiti di questa strategia. Più preoccupante è il fatto che altri paesi asiatici industrializzati sembrano seguire le orme del Giappone invece di evitarle.

Una soluzione più semplice sarebbe quella di aumentare la popolazione attiva. Sorprendentemente l’aumento dell’immigrazione da parte del governo Abe ha avuto un successo limitato. La percentuale di stranieri residenti in Giappone è aumentata del 6,6% nel 2018, raggiungendo la quota record di 2,73 milioni di persone, grazie ai programmi di apprendistato per stranieri e a un regime di visti più flessibile per la manodopera qualificata. Nonostante con l’incremento del 2% in termini di popolazione straniera il Giappone non regga il confronto con il 12% in Germania e il 14% negli Stati Uniti, questo fattore rappresenta comunque un interessante cambiamento in una società nota per la sua omogeneità.

Tuttavia, il cambiamento nella politica di immigrazione del Giappone non sembra essere un modello per gli altri paesi industrializzati. La politica di immigrazione negli Stati Uniti e in Europa diventa sempre più restrittiva. Inoltre, l’immigrazione giapponese potrebbe non essere abbastanza aggressiva, soprattutto se le riforme vacillano dopo il possibile abbandono della vita politica da parte di Abe nel 2021.

Siamo destinati a un blocco demografico?

La fisica ci dice che nulla può sfuggire a un buco nero. Finora il Giappone non è ancora sfuggito al proprio buco nero personale, ovvero l’invecchiamento demografico e il suo impatto sui mercati finanziari.

Il modo in cui il Giappone può combattere la “Japanification” in questo insolito periodo di stabilità politica e contrastare gli effetti dell’invecchiamento della popolazione continua ad attirare l’attenzione dei politici di tutto il mondo. Se da un lato il Giappone ha generato una certa crescita interna e ha arginato il calo dell’inflazione, dall’altro le sfide fondamentali per il paese persistono. Il recente aumento delle imposte rappresenta un altro passo in avanti nel lungo cammino del Giappone.

Probabilmente è troppo presto per concludere che il Giappone sia in grado di sfidare il proprio personale buco nero o mostrare al resto del mondo come evitarne l’attrazione gravitazionale. È un fenomeno che preoccupa gli investitori di tutto il mondo, mentre guardiamo i potenziali decenni di invecchiamento della popolazione che ci attendono.