Ma che vuol dire “città intelligente”?

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Le città, i punti del pianeta dove le persone sono più concentrate, sono da sempre nella storia umana i luoghi per eccellenza in cui l’innovazione prende forma e trova spazio di applicazione. Strade, fogne e acquedotti o – più di recente – reti metropolitane, sistemi di telecomunicazione e per i flussi energetici, sono solo alcuni degli infiniti esempi di soluzioni e tecnologie che ci permettono di vivere in modo più semplice e agevole.

E va da sé che pure la rivoluzione digitale e i vari sistemi di apprendimento automatico governati da sofisticati algoritmi trovino come habitat il contesto urbano, dove ormai ci rendiamo ben conto di quanta strada sia già stata percorsa. Tuttavia, concepire la città come un contenitore in cui riversare tecnologia è insensato almeno tanto quanto lo è dire che “la mente degli studenti è un vaso da riempire”. E se il celebre proverbio ci dice che la mente è piuttosto “un fuoco da accendere”, allo stesso modo la città è un luogo dove le tecnologie possono essere tasselli da combinare assieme per generare servizi, opportunità e benessere.

L’espressione stessa ‘smart city’, città intelligente, è a volte al centro di un equivoco. L’intelligenza urbana non consiste dell’avere a disposizione hardware e software di ultima generazione, così come per fare un bravo matematico non basta certo una buona calcolatrice. Per essere smart occorre anzitutto che le tecnologie siano integrate tra loro, che si parlino e siano complementari l’una all’altra, così da dare forma a un ecosistema basato su un proprio equilibrio e in cui ciascun anello della catena aiuti a renderne salda la struttura.

Spesso, quando si parla di smart city, il primo spunto è elencare la miriade di tecnologie che oggi abbiamo a disposizione: i semafori intelligenti che regolano i flussi di veicoli in citta, i sistemi di videocamere che possono rafforzare il senso di sicurezza e la sicurezza effettiva, i cassonetti dei rifiuti che comunicano quando è giunta l’ora di svuotarli, il monitoraggio sistematico e capillare della qualità dell’aria, i servizi pubblici che diventano accessibili anche dal web, i trasporti urbani con biglietteria istantanea, le soluzioni per contenere piogge intense o isole di calore estivo, i nuovi materiali, la comunicazione tra oggetti o tra infrastruttura e veicoli secondo il paradigma della Internet of Things, e si potrebbe davvero continuare ancora molto a lungo. Ma questo elenco non rende affatto giustizia alle potenzialità – per la vita delle persone, ma anche in termini di business – che la smart city davvero apre. Ciò che effettivamente rende tale l’intelligenza cittadina è la possibilità di monitorare e di gestire la città in tempo reale, di sentirne il respiro e il battito, si potrebbe dire, raccogliendo, gestendo e interpretando in pochi secondi una miriade di dati provenienti dalle diverse infrastrutture e dai numerosissimi sensori. Informazioni che, solo una volta messe assieme, permettono di attivare quei chiacchieratissimi sistemi di apprendimento automatico che oggi hanno la potenzialità di analizzare il presente, di individuare in anticipo situazioni problematiche e di proporre soluzioni.

Per molti aspetti si potrebbe dire che nelle smart city stiamo già vivendo: lo sa bene chi gestisce gli impianti di teleriscaldamento, o chi viaggia a bordo dei veicoli per il trasporto delle persone o dei rifiuti urbani. Per altri versi, invece, quello che abbiamo assaggiato finora in termini di miglioria dei servizi e della quotidianità cittadina è solo l’antipasto. La propulsione arrivata con la pandemia in termini di digitalizzazione e di remotizzazione ha permesso di accelerare ancora di più il processo di trasformazione, ma pur sempre all’interno di un trend di lungo corso che – di fatto – prosegue e proseguirà senza limiti di tempo. E che punta a obiettivi irrinunciabili come la sostenibilità ambientale, economica e sociale delle nostre città, che come sappiamo saranno nei prossimi decenni chiamate a ospitare un numero crescente di persone.

Forse quella della smart city potrebbe essere addirittura definita una rivoluzione intelligente: rivoluzione perché, di fatto, in molti settori ha un portato di innovazione che non è incrementale ma discontinuo, di reale disruption. Il paradigma smart city abilita nuovi modelli d’impresa, come ci raccontano i trend dello sharing, della mobilità condivisa e della metamorfosi che stanno subendo le nostre automobili o le nostre abitazioni. E anche se in alcuni casi gli investimenti e le trasformazioni si sviluppano in archi di tempo pluriennali, gli obiettivi e i risultati di questi processi sono ben chiari: “Roma non fu costruita in un giorno”, sintetizza il famoso detto, e nemmeno la grande impresa che è smart city può essere qualcosa di immediato o sempre in discesa.
Tutti quanti siamo incappati più d’una volta in quelle classifiche che si rincorrono a proposito di smart city, peraltro con risultati non sempre concordi, tanto a livello locale quanto globale. Al di là del ranking, che spesso pecca di parzialità per numero di parametri presi in considerazione e del relativo peso con cui vengono inclusi nel computo finale, è evidente che sono i grandi capoluoghi a fare da traino e a dare l’esempio per una trasformazione che sta avvenendo con modalità simili in molte città italiane, europee e mondiali. Luoghi in cui aziende, startup, amministrazioni pubbliche e ricercatori sono al lavoro per fare sì che la città high tech sia sempre più un posto per le persone.