Siamo tornati ai giorni neri degli anni ’70?

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Mark Twain diceva: “La storia non si ripete ma spesso fa rima”. Ciononostante, il periodo che si è sempre distinto per non aver mai trovato una controparte con cui fare rima sono gli anni ’70. Anche per quanto riguarda l’eccezionale ambiente economico: shock petroliferi, carenze energetiche, inflazione fuori controllo e disoccupazione elevata. Questo periodo unico ha portato alla creazione del termine “stagflazione” (condizione simultanea di disoccupazione e inflazione elevate), ritenuto fino a quel punto impossibile dal pensiero economico tradizionale keynesiano/della Curva di Phillips.

Periodo unico che sembra avere diverse similitudini con i giorni nostri. È dunque arrivato il momento di rientrare nel ritmo degli anni ’70?

Prima di dare una risposta a questa domanda vediamo dove siamo adesso e dove stiamo andando. Molti dei trend che ci hanno portato a un ambiente di bassa crescita dei salari stanno cambiando. I dati demografici si muovono da buoni (la popolazione in età lavorativa cresce a un ritmo più veloce della popolazione in generale) a cattivi. E questo non solo negli USA, in Giappone e in Europa, ma anche in gran parte dei mercati emergenti.

Parzialmente influenzati dai cambiamenti provocati dalla pandemia globale, i trend recenti nell’immigrazione e nella partecipazione alla forza lavoro delle persone in età lavorativa suggeriscono che alcuni dei venti favorevoli della manodopera stanno diventando venti contrari. Oltre a implicare una inferiore crescita potenziale del PIL negli anni a venire, questo potrebbe avere altresì un impatto sull’inflazione, soprattutto se la porzione della popolazione che non lavora crescerà in maniera sproporzionata, generando una forte domanda di prodotti e servizi dovuta a fattori come il sostegno/i sussidi da parte del governo e/o la liquidazione della ricchezza accumulatasi durante il mercato rialzista degli ultimi 40 anni.

La tendenza recente nel commercio e nella geopolitica globale è anche preoccupante da un punto di vista inflazionistico; anche prima che la pandemia accrescesse le tensioni con la Cina, gli USA avevano tassato il commercio (tramite le tariffe) e limitato il trasferimento dei beni intellettuali (tecnologia). Il commercio con la Cina aveva già iniziato a rallentare prima del 2020 ma la pandemia, nello specifico i colli di bottiglia della supply chain che ne sono derivati, ha messo l’accento sulla necessità che le aziende globali semplificassero le catene di approvvigionamento avvicinando a casa la produzione, specialmente per quei prodotti ritenuti critici per la sicurezza medica e nazionale. Se l’espansione del commercio globale ha incoraggiato la produzione e la distribuzione di merci e servizi a buon mercato, sembrerebbe logico che una parziale inversione di marcia potrebbe portare a merci e servizi più costosi.

La geopolitica è sempre un’incognita e i mesi iniziali del 2022 lo stanno confermando. Sebbene non sia ancora chiaro quanto durerà e quanto saranno gravi gli sconvolgimenti per l’economia e i mercati globali provocati dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, l’impatto a breve termine è chiaro e non particolarmente positivo: i prezzi energetici estremamente più alti in tutto il mondo e soprattutto per l’Europa, oltre che la pressione al rialzo sui prezzi dei metalli industriali e del grano che vengono esportati da quella regione, hanno delle chiare implicazioni stagflazionistiche nel termine più prossimo, riducendo la domanda e aumentando l’inflazione.

E allora, è proprio così? Siamo tornati ai giorni neri degli anni ’70? Sì e no. Sì, perché non nutriamo alcun dubbio sul fatto che il 2022 e persino il 2023 vedranno una maggiore inflazione, un rallentamento della crescita e un forte potenziale di recessione. Anche se la Fed riuscisse a non deludere le aspettative di mercato di 6-7 rialzi, la pressione sui prezzi nell’economia ha basi generalizzate e si diffonde su tutto il mercato del lavoro. Considerato che la politica della Fed lavora in ritardo sull’economia e che l’inflazione lavora in ritardo sull’attività economica, presto potremmo trovarci davanti un indice di miseria (inflazione più disoccupazione?) nella fascia bassa delle due cifre.

Viceversa, la nostra opinione a lungo termine (3-5 anni) è no, non pensiamo che un tasso di inflazione a più del 4% sia sostenibile negli USA per un periodo di tempo prolungato. Mentre la tecnologia e l’automazione continueranno a essere forze disinflazionistiche in azione per far sì che la manodopera non prenda troppo il sopravvento, la ragione principale per cui dubitiamo della sostenibilità a lungo termine dell’inflazione elevata è la parola debito. Il debito combinato è ai massimi di sempre in relazione alla dimensione della nostra economia (3,5X). Ciò significa che i maggiori tassi di interesse che accompagnano la maggiore inflazione avranno un duro impatto sull’economia: i budget dei governi vengono schiacciati dai maggiori interessi passivi, mentre l’elevata leva finanziaria stressa consumatori e imprese, portando molti al default. In altre parole, il vaso si romperà e la domanda subirà l’impatto negativo di un ambiente caratterizzato da alta inflazione e alti tassi di interesse.

Bisogna anche considerare che la nostra economia è sempre più legata al benessere dei mercati dei capitali. Nel mondo di oggi, un’inflazione più elevata porta a tassi di interesse più alti, a prezzi inferiori degli asset che causano una domanda inferiore di beni/servizi. Questi fattori, infine, portano a una crescita più lenta e a una minore pressione al rialzo sui prezzi.