Colpo da maestro per la FED?

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La Banca centrale statunitense, in ritardo all’inizio dell’anno nella lotta all’inflazione, ha nel frattempo compiuto uno sforzo titanico sia nella comunicazione che nelle iniziative messe in campo per tornare a essere credibile, al costo di una forte correzione dei mercati azionari e obbligazionari – una rara concomitanza. Il prezzo pagato è alto: un ribasso del 10% circa dei titoli di Stato dei Paesi ricchi, e ancor più accentuata delle azioni. La crescita globale invece – ancorché rivista al ribasso negli ultimi mesi – dovrebbe attestarsi a un livello leggermente superiore al 3%, ritenuto ancora soddisfacente per il 2022. In tempi normali, questo livello di crescita non giustificherebbe uno storno simile, ma l’ultimo periodo è tutto tranne che “ordinario” visto il voltafaccia della Fed.

La buona notizia è che questo pesante sforzo di adattamento sembra aver dato i suoi frutti. L’inflazione, sia negli Stati Uniti che in Europa, è al massimo degli ultimi quarant’anni o più, e ha intaccato il potere d’acquisto delle famiglie, anche se quella attesa a più lungo termine, che si riflette ad esempio nei prezzi delle obbligazioni indicizzate all’inflazione degli Stati Uniti, sta chiaramente mostrando segnali di ribasso. Tenuto ad esempio conto di un orizzonte decennale, questo livello scende dal 3% e più in aprile all’attuale 2,6%. A un anno, il fenomeno è ancora più marcato, con un passaggio dal 6,3% di fine marzo al 4,7% di oggi. Il dato è ancora troppo alto, superiore all’obiettivo desiderato, ma il cambiamento di rotta è favorevole. Ne consegue una diminuzione del numero di rialzi dei tassi ufficiali statunitensi previsti dal mercato da qui a fine 2022. Atteso all’inizio di marzo al 2,9% a fine anno, questo tasso è sceso ora al 2,6%, una flessione certamente modesta e che potrebbe essere messa in discussione, ma la prima e anche di portata significativa dopo quella successiva allo scoppio della guerra in Ucraina a fine febbraio.

Mostrandosi intrattabile negli ultimi mesi riguardo la sua posizione anti-inflazionistica, quasi “volckeriana” – ricalcando le orme del presidente della Fed Paul Volcker, nei primi anni ’80, che portò i tassi ufficiali al 20% – la Fed si trova ora nella situazione ideale in cui non ha più bisogno di agire per essere efficace. Il mercato le riconosce un vantaggio sull’inflazione. In altre parole, la Fed è diventata sufficientemente restrittiva da non aver più bisogno di aumentare i tassi tanto quanto si poteva temere un mese fa.

I rischi inflazionistici non sono però stati del tutto allontanati. I fattori di inflazione “esterni”, che la Fed non è in grado di controllare, come il prezzo dell’energia o delle materie prime agricole, dipendono ancora in gran parte dagli sviluppi caotici della guerra in Ucraina. Inoltre, l’inflazione legata alle interruzioni delle catene di produzione globali dovute al Covid, in Cina in particolare, potrebbe persistere o addirittura peggiorare, anche se le cose sembrano migliorare leggermente. Tuttavia, questi fattori sfuggono al controllo della Fed. In caso aumentassero, la Fed saprebbe però cosa fare e il mercato potrebbe rimanere relativamente tollerante.

Per riprendere il controllo sulle aspettative inflazionistiche, la Fed ha accettato di mettere a rischio la parte del suo mandato relativa alla crescita visto che un inasprimento significativo delle condizioni monetarie non può che rallentare l’economia. Il mercato ha individuato questo rischio e ha addirittura scontato, da qualche settimana ormai, la probabilità di una recessione nel 2023, benché per ora moderata. La Fed potrebbe, soprattutto, recuperare un margine di manovra sufficiente entro il 2023 per allentare nuovamente la sua politica monetaria e sostenere l’economia invece di frenarla. In tal caso, avrebbe messo a segno un colpo da maestro che all’epoca non riuscì nemmeno a Paul Volcker: contenere con forza un’inflazione record senza che l’economia sprofondi in una recessione.

È certamente troppo presto per dirlo. Il crinale è sottile tra una stretta monetaria eccessiva da un lato, e insufficiente dall’altro. Ciò che si può però dire è che l’economia statunitense sembra ora molto più incline ad avviarsi su questa strada insidiosa, dopo che ha temuto per un po’ di andare a sbattere nel muro dell’inflazione. Una virata spettacolare per opera di “Maverick” J. Powell.