Europa: fragilità e unione

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Nel corso della sua breve storia, l’Unione Europea non è stata risparmiata dagli shock globali. In questa newsletter vorrei ragionare sulle cause e sugli effetti che questi episodi hanno avuto. Il tema è di attualità, come si può notare dall’interesse della stampa per il grano e la spesa militare.

Era il 10 marzo 1997 quando le prime azioni vennero scambiate sul NEMAX, il “nuovo mercato” lanciato dalla borsa tedesca sulla scia del successo planetario del Nasdaq. Ricordo ancora l’euforia dei broker tedeschi e le brillanti discussioni sull’ultima startup tecnologica quotata a Francoforte. L’indice non sopravvisse alle forti perdite del mercato statunitense – il Nasdaq perse il 77% da marzo 2000 a ottobre 2002 – e venne chiuso il 5 giugno 2003. La perdita di questo importante canale di finanziamento per le aziende europee che avrebbero potuto e dovuto traghettarci verso un mondo nuovo ha reso l’Europa dipendete da Wall Street e da Silicon Valley.

Come dimenticare la Grande Crisi Finanziaria (GFC)? In retrospettiva, il problema non fu tanto la dipendenza delle banche Europee dalla liquidità in dollari americani. L’attivazione di linee di swap in valute estere da parte delle banche centrali, in aggiunta alle operazioni speciali di mercato aperto della BCE – in particolare su scadenze lunghe – riuscirono a evitare il collasso del sistema finanziario. Ovviamente, le headlines si concentrarono su Lehman Brothers, Northern Rock eccetera, ma in verità il sistema riuscì a resistere. L’accordo di Basilea Tre fu la ovvia contromisura per evitare che si possa ripetere un evento di liquidità.

Purtroppo, però, il fallout a livello di economia reale fu devastante e mise a nudo due aspetti critici dell’Europa: L’eterogeneità e il legame tra banche e stato. Ci si rese conto che una politica monetaria “globale” non può funzionare per assorbire gli shock distribuiti con entità diversa sui vari paesi membri. Ci si rese conto che gli investitori esteri o meglio non-residenti possono avere una voce in capitolo sulla tenuta delle finanze pubbliche. I vari passaggi parlamentari che seguirono – da Atene a Dublino, passando per Roma e Madrid – misero a dura prova la tenuta dell’Unione, almeno fino a quando non cambiò la politica monetaria. Il Quantitative Easing stabilizzò la situazione del debito, arginando le tendenze centrifughe. Ma in verità ci accorgiamo oggi che siamo in larga parte dipendenti dalla BCE per il finanziamento del debito pubblico. In questo senso, l’inversione di tendenza – il cosiddetto Quantitative Tightening – preoccupa non poco, e non solo i BTP, ma addirittura i Treasury americani.

Arriviamo così ai giorni nostri, in cui la Globalizzazione e il Covid hanno evidenziato le lacune nei nostri sistemi di prevenzione, senza voler alimentare inutili polemiche sulla gestione dell’epidemia e sul rischio di tenuta dei sistemi sanitari dei singoli paesi. Il ricordo va ai giorni bui della primavera 2020, quando ci siamo accorti della nostra dipendenza da Pechino per l’approvvigionamento di mascherine e ventilatori polmonari. E non solo, basti pensare all’allungamento dei tempi di consegna dovuti alla mancanza di componenti microelettroniche. La risposta comune con il piano NGEU è formidabile e per una volta l’Unione si è mossa da Unione sia sul campo politico che su quello finanziario. Purtroppo, i progetti non sono di immediata realizzazione.

Tutto risolto quindi? Non proprio. Il conflitto Russo-Ucraino mette a nudo la fragilità dell’Unione Europea rispetto a temi di non scarsa importanza: L’energia e la difesa. In sintesi, ci accorgiamo ora di essere in larghissima parte dipendenti dall’estero per tutte le materie prime – non solo il gas, ma anche il grano…il grano! – e per la difesa, delegata alla NATO. Il rischio è di essere nuovamente spettatori di movimenti politici centrifughi, piuttosto che di effetti negativi sulle economie e sui mercati finanziari.

Permettetemi di concludere. Sarebbe razionale aspettarsi forti investimenti pubblici in tutti quei settori che hanno evidenziato forti fragilità negli ultimi ventiquattro mesi. Il modello “public-private-partnership” è e sarà sempre non solo un formidabile motore di crescita e di innovazione, ma anche di performance per gli investimenti finanziari.  Purtroppo, non avverto l’urgenza dei vari governi né della Commissione Europea. Anzi, mi sembra di percepire la necessità a scopo politico di sostenere temporaneamente il potere d’acquisto delle famiglie, anche se solo parzialmente e a svantaggio di quei target di transizione ecologica che parevano intoccabili solo qualche mese addietro. Temo che lo “short-termismo” non sia la ricetta giusta per rendere il sistema più resiliente. Temo che la fragilità sarà un problema ancora per molti anni, anni in cui l’aumento dei prezzi erode e eroderà parte del nostro potere d’acquisto. In quest’ottica è cruciale ragionare su investimenti che proteggano i nostri risparmi dall’inflazione.