Ascoltate quell’uomo

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Il presidente della Federal Reserve (Fed) Jerome Powell ha tenuto una conferenza stampa molto aggressiva dopo che il Federal Open Market Committee (FOMC) ha alzato i tassi d’interesse di altri 50 punti base (pb) a dicembre, peraltro senza convincere i mercati finanziari. La presentazione di Powell alla conferenza stampa ha comunicato due cifre favorevoli sull’inflazione: il rallentamento a novembre del Consumer Price Index (CPI) al 7,1%, dal 7,7% di ottobre e l’8,2% di settembre. Particolarmente incoraggiante è stato lo 0,1% su base mensile di novembre. Powell ha dato risalto al miglioramento, ma il suo tono è stato molto sobrio e pragmatico. Per parafrasare: Quest’anno la Fed ha già alzato i tassi di 425 pb, portando la politica in territorio restrittivo. Adesso è ragionevole rallentare il ritmo dei rialzi per “tastare il terreno” fino al tasso massimo ottimale.

L’inflazione procede nella direzione giusta, e questo è incoraggiante, tuttavia …

… avvicinarsi all’obiettivo richiederà molto tempo e altri sforzi della politica. I prezzi delle merci si stanno correggendo e l’inflazione degli alloggi rallenterà quando l’indice inizierà a tener conto di nuovi contratti di affitto con canoni più bassi. Powell ha tuttavia ribadito che il grosso dell’inflazione, ossia i servizi core esclusi gli alloggi, è legato a una crescita ancora forte dei salari, sostenuta da un mercato del lavoro che continua ad essere “sostanzialmente non equilibrato.” La Fed ritiene che ci vorrà molto tempo affinché questa situazione si raffreddi. Per questo motivo, un’ampia maggioranza del FOMC prevede attualmente che il tasso d’interesse politico debba essere portato oltre il 5%, e mantenuto a tale livello per un congruo periodo, fino a che non sarà possibile avere una fiducia sufficiente in un calo sostenuto dell’inflazione verso l’obiettivo.

È tutto perfettamente ragionevole. È un approccio politico molto razionale, basato su un’interpretazione molto pragmatica dei trend economici. Il problema è che la visione dei mercati è decisamente più rialzista rispetto a quella della Fed. Powell ne è ben consapevole, e sa di avere contribuito a questo problema con certe dichiarazioni piuttosto accomodanti in un discorso tenuto recentemente a Brooking; pertanto ha cercato di spingere nella direzione opposta con uno sbarramento notevole di punti aggressivi: Il FOMC ha alzato ripetutamente la stima del tasso massimo dei Fed Fund in varie revisioni recenti della Sintesi delle proiezioni economiche (SEP), e potrebbe continuare a farlo; La politica monetaria non è ancora sufficientemente restrittiva; La storia passata mette in guardia con forza da un allentamento prematuro della politica; e Powell ha ribadito che il “dot plot” della Fed non contempla alcun taglio dei tassi nel 2023, contrariamente alle aspettative del mercato di tagli dei tassi per 50 pb.

I progressi della Fed sul fronte dell’inflazione sono stati minori di quanto si ritenesse e pertanto il 2022 si chiuderà con un’inflazione superiore a quanto anticipato; L’inflazione core è ancora al 6%, il triplo dell’obiettivo della Fed, e non vi sono stati molti progressi verso un raffreddamento del mercato del lavoro e un rallentamento della crescita dei salari. Complessivamente, Powell ha fatto tutto quanto ragionevolmente possibile per mantenere un tono aggressivo. I mercati finanziari non si sono convinti; dopo il meeting del FOMC, il rendimento dei buoni del Tesoro USA a 10 anni ha chiuso in calo, il dollaro statunitense si è indebolito e le azioni son salite vivacemente. Avevo ricordato in commenti precedenti che la Fed ha un problema di credibilità, visto che negli ultimi quindici anni ha condizionato i mercati ad attendersi che la politica monetaria avrebbe sempre sostenuto i prezzi degli asset. Gli investitori sono stati condizionati a temere di lasciarsi sfuggire un rally non appena fosse stato visibile un datapoint o una dichiarazione incoraggiante. La conferenza stampa del FOMC a dicembre non ha fatto altro che confermare quanto sia serio il problema di credibilità della Fed. È difficile dare la colpa all’impostazione attuale della Fed.

L’unico modo per superare questo problema di credibilità sarebbe probabilmente esagerare con l’irrigidimento: ciò implicherebbe tuttavia una recessione (più) profonda, e la Fed è comprensibilmente riluttante a compiere questo passo. L’ovvia complicazione è che con l’espressione di una sfiducia totale dei mercati finanziari nella retorica della Fed, le condizioni finanziarie diventano ancora più accomodanti. Sarà quindi più difficile per la Fed riportare l’inflazione entro l’obiettivo – e a sua volta ciò rende ancora più necessario per la banca ciò che afferma essere nelle sue intenzioni: ossia portare i tassi oltre il 5% e mantenerli a tale livello per un periodo più lungo di quanto previsto dal mercato.

Secondo me l’interpretazione della Fed dell’economia e delle prospettive di inflazione in generale è corretta (anche se continua ad essere ottimista riguardo all’inflazione): l’economia è ancora resiliente; vi sono solo timidi segni di un indebolimento nel mercato del lavoro; e la crescita salariale, le misure core e l’inflazione “vischiosa” sono costantemente intorno al 6%. I tassi d’interesse nell’intero spettro delle scadenze sono ancora inferiori all’inflazione attuale. Il percorso per abbassare l’inflazione all’obiettivo sarà duro, e il rischio che si radichi intorno al 4%-5% è ancora reale. Alzare il tasso politico oltre il 5% e mantenerlo a tale livello per un certo periodo di tempo sembra una visione piuttosto realistica del tipo di traiettoria politica che può contribuire a realizzare l’obiettivo dell’inflazione. Gli investitori tuttavia non credono più in una Fed aggressiva.

I mercati finanziari sembrano essere passati da “non lottare contro la Fed” a “non credere più nella Fed”. Potrebbe rivelarsi una profezia controproducente. È più probabile che si tratti di una ricetta per un forte aumento della volatilità.