Il mercato del lavoro è uno scudo in Kevlar o un tallone d’Achille?

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I dati economici hanno evidenziato un rallentamento del ritmo di crescita negli ultimi mesi, culminato con l’indice dei direttori degli acquisti manifatturieri (PMI) dell’Institute for Supply Management (ISM) che è entrato in zona di contrazione (sotto quota 50), scendendo a 49,0 a novembre. Tuttavia, la forza del mercato del lavoro si è mantenuta, consentendogli di rimanere un elemento positivo, con 263.000 assunzioni nette lo scorso mese. Nel corso degli ultimi quattro mesi, la creazione di posti di lavoro si è attestata su una media di 277.000, significativamente più alta della media di 156.000 registrata nella seconda metà del 2018 e nel 2019. Riteniamo che quel periodo rappresenti una situazione vicina a un ritmo sostenibile di creazione di posti di lavoro, considerando che il tasso di disoccupazione si era mantenuto inferiore al 4% per tutto il periodo.

Purtroppo, la forza del mercato del lavoro, che molti vedono come un robusto scudo in Kevlar per l’economia, potrebbe invece rivelarsi il suo tallone d’Achille. Con l’inflazione che si mantiene elevata, la Fed ha individuato la debolezza del mercato del lavoro come uno dei segnali chiave per decidere fino a che punto arrivare con la stretta monetaria. In una dichiarazione rilasciata la settimana scorsa, il Presidente della Fed Jerome Powell ha illustrato i quattro criteri necessari per ripristinare la stabilità dei prezzi e riportare l’inflazione al 2%; e tra questi il mercato del lavoro è l’unico che non ha visto segnali di miglioramento. La domanda eccessiva di manodopera continua a spingere le retribuzioni verso livelli insostenibilmente elevati, ben al di sopra del limite coerente con un’inflazione al 2%. Di conseguenza, la Fed potrebbe proseguire con la sua stretta monetaria finché i decisori politici non vedranno segnali più numerosi e convincenti di un rallentamento del mercato del lavoro e delle retribuzioni.

Storicamente, il mercato del lavoro è uno degli ultimi settori a cadere quando un’economia entra in recessione. Questo significa che l’attenzione della Fed per il mercato del lavoro rischia di portarla a esagerare nella stretta monetaria e quando i dati suggeriranno di invertire la rotta, potrebbe essere già troppo tardi. Anche se la Fed è sicuramente consapevole di questo pericolo, si trova tra due fuochi a causa dell’aumento prolungato e sostenuto dell’inflazione. Le condizioni attuali rischiano di avviare una spirale tra salari e prezzi, un fenomeno che vede i lavoratori chiedere e ottenere forti aumenti delle retribuzioni per combattere l’incremento dei prezzi, per consumare di più e far crescere i prezzi ancora di più, creando così un circolo vizioso che porta a ulteriori rialzi dell’inflazione, oppure alla recessione. La spirale tra prezzi e salari è stata una delle caratteristiche chiave dell’inflazione degli anni ‘70 e sarebbe il risultato peggiore, che richiederebbe una profonda recessione per ripristinare la stabilità dei prezzi.

C’è speranza, tuttavia, che entrambi questi esiti possano essere evitati se il mercato del lavoro si contrae senza eliminare troppi posti di lavoro, un fenomeno che abbiamo battezzato “immaculate slackening” (“rallentamento immacolato”). Nello specifico, i posti vacanti secondo l’indice JOLTS (Job Openings and Labor Turnover Survey, posizioni aperte e turnover della forza lavoro) sono significativamente superiori rispetto ai livelli pre-pandemia (10,3 milioni oggi rispetto ai 7,0 milioni di febbraio 2020), ma il numero totale di occupati non lo è (153,5 milioni oggi rispetto a 152,5 milioni a febbraio 2020). Questo dato suggerisce che c’è spazio per un rallentamento della domanda di manodopera e dell’aumento delle retribuzioni senza causare troppe perdite di posti di lavoro. Anche se i posti vacanti sono scesi rispetto al picco di 11,9 milioni toccato in precedenza quest’anno, citando l’episodio della “immaculate reception” (“ricezione immacolata”) di Franco Harris nella più famosa giocata della storia del football americano possiamo dire che la strada è ancora lunga prima di arrivare all’ “immaculate slackening” (“rallentamento immacolato”).

Il mercato del lavoro ha rallentato, ma rimane storicamente molto forte. Oltre ai posti vacanti, il tasso di dimissioni – un componente secondario dell’indice JOLTS – è sceso dal 3,0% di un anno fa al 2,6% del mese scorso, suggerendo una diminuzione dell’ottimismo perché i lavoratori sono meno disponibili a lasciare il proprio posto senza averne già uno nuovo e non sono più così sicuri di trovare una nuova occupazione facilmente. Ciononostante, un tasso del 2,6% è superiore al picco raggiunto storicamente nei 20 anni pre-pandemia, pari al 2,4%. Inoltre, la percentuale di rispondenti al sondaggio sulle tendenze economiche delle piccole imprese, condotto dalla NFIB, che ha indicato le assunzioni di nuovo personale come il proprio principale problema operativo è scesa dal 51% dell’autunno scorso al 46%, pur rimanendo ben al di sopra del picco storico del 33% precedente alla pandemia. Anche se tutte e tre le serie di dati suggeriscono che le cose stanno andando nella giusta direzione, occorrono ulteriori progressi significativi per convincere la Fed che l’occupazione e l’inflazione scenderanno a livelli più sostenibili.

Le retribuzioni stanno mostrando un andamento simile, con la maggior parte delle metriche relative che hanno raggiunto il picco nel primo trimestre di quest’anno prima di rallentare, pur mantenendo ancora un ritmo superiore a quello auspicato dalla Fed. La retribuzione media oraria è scesa dal 5,6% di marzo al 5,1%, ma è ancora decisamente superiore al picco del 3,6% registrato durante l’ultima fase espansionistica.1 Anche la creazione di nuovi posti di lavoro è diminuita, da una media di 590.000 al mese nella seconda metà del 2021 e 444.000 nella prima metà del 2022 a soli 277.000 negli ultimi quattro mesi.2 Inoltre, le indagini sulle famiglie dei rapporti sui posti di lavoro, utilizzate per calcolare il tasso di disoccupazione, hanno fornito risultati molto più deboli rispetto alle indagini sulle imprese (fonte dei salari non agricoli) negli ultimi due mesi, registrando dati negativi mentre i dati sui posti di lavoro rimangono decisamente positivi. Storicamente, le indagini sulle famiglie hanno sempre fornito informazioni più accurate sui punti di svolta verso una recessione, e questo sarà un elemento da monitorare mentre ci dirigiamo verso il nuovo anno.

La contrazione dei margini presto potrebbe portare a esuberi e licenziamenti

I margini aziendali sono uno dei catalizzatori che rafforzano il mercato del lavoro. Con profitti positivi e scarsità di manodopera all’uscita dalla pandemia, le società sono state molto caute nel decidere tagli al personale. Tuttavia, questa situazione potrebbe cambiare all’inizio del 2023 perché i profitti aziendali sono sempre più sotto pressione. I margini hanno raggiunto il picco circa un anno fa, ma il loro deterioramento ha accelerato di recente e potrebbe avviare un ciclo di licenziamenti più recessionistico. In effetti, questo mese l’indicatore dei margini di profitto del ClearBridge Recession Risk Dashboard è peggiorato, passando da giallo a rosso, suggerendo così che la soglia per la riduzione del personale probabilmente si sta avvicinando. In assenza di altri segnali di cambiamento questo mese, il dato complessivo rimane saldamente in zona rossa, o recessionistica.

Il mese scorso abbiamo confermato la nostra opinione che il rimbalzo dal livello minimo toccato a metà ottobre rappresenti un rally in controtendenza e un’estensione delle previsioni che avevamo esposto il mese precedente. Continuiamo a credere che il punto più basso di questo mercato ribassista debba ancora essere raggiunto e che un rally dopo le elezioni di metà mandato non sia sorprendente da un punto di vista storico. Anche se molti operatori sperano che il mercato del lavoro costituisca un solido scudo in Kevlar per questa espansione economica, l’ulteriore stretta monetaria della Fed che ne potrebbe derivare potrebbe trasformarlo nel suo tallone d’Achille. Continuiamo a vedere un percorso instabile e accidentato per le azioni perché gli investitori navigano in acque burrascose e perché gli effetti ritardati della stretta monetaria si sono scontrati con consumi sorprendentemente resilienti. Di conseguenza, continuiamo a preferire un posizionamento dei portafogli azionari orientato verso i settori difensivi e verso la qualità nel medio termine.