Caffè, cacao e olio di palma: investire nell’agroalimentare tutelando i diritti umani. Tre casi concreti

Sairindri Christisabrina, ESG Analyst – Social Investments and Research e Vincent Compiègne, Deputy Global Head of ESG Investments and Research di Candriam -
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L’industria alimentare si trova ad affrontare numerosi rischi e controversie in materia di diritti umani per via della vastità e complessità delle supply chain che partono dalla filiera agricola e includono poi i trasporti, l’imballaggio e la vendita al dettaglio.

Questi includono diritti sociali e culturali, come il diritto al lavoro in condizioni giuste e favorevoli, la libertà dalla schiavitù e dalla discriminazione, la libertà di associazione e il divieto di trattamenti degradanti.[1]

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In un suo recente studio l’organizzazione no-profit Corporate Human Rights Benchmark ha esaminato il livello di tutela dei diritti umani nelle catene di fornitura di tre settori. Più della metà di questo universo è composto da aziende dell’industria alimentare. Tra le 127 aziende prese in esame, sono state registrate 174 denunce di violazioni dei diritti umani. La maggior parte delle denunce ha avuto come oggetto il lavoro forzato che è salito al 26%, rispetto al 22,5% nel 2020. Seguono poi discriminazione, salute e sicurezza e orario di lavoro.

Nonostante siano stati mossi dei primi passi, i rischi per i diritti umani nelle supply chain rimangono difficili da analizzare. Gli investitori devono essere due passi avanti nel processo di due diligence negli investimenti sostenibili e responsabili, dovendo al contempo far fronte a una limitata disponibilità di dati.

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Su 97 aziende del settore food & beverage valutate dall’Alliance for Corporate Transparency, solo il 3,2% ha reso pubblici i propri elenchi di fornitori appartenenti a catene di fornitura ad alto rischio. All’interno di questo settore, ben il 68,4% non fornisce nemmeno informazioni sulla struttura e sui rischi della propria supply chain.

Se si guarda più specificatamente ai rischi per i diritti umani, solo il 30,5% delle aziende del settore food & beverage ha fornito descrizioni specifiche su questi rischi.

Nel valutare i rischi per i diritti umani nelle loro catene di fornitura, le aziende dovrebbero dimostrare quanta visibilità hanno sulle reti di fornitura di cui si avvalgono e rendere pubbliche le informazioni rilevanti per gli investitori e gli altri stakeholder. Nel food & beverage ciò include ovviamente le materie prime chiave. Dove hanno sede i fornitori? Quanto dipendono le entrate da queste materie prime? Le risposte a queste domande servono da primo indicatore del rischio e forniscono informazioni sulla struttura e sul modello di business della supply chain di un’azienda.

Abbiamo utilizzato i dati CDP Forest disponibili al pubblico e i documenti aziendali di sette aziende di prodotti di consumo, ovvero Procter & Gamble, Nestlé SA, The Coca-Cola Company, Pepsico, PLC Unilever, Reckitt e Danone SA, per comprendere la loro dipendenza dei ricavi da determinate materie prime.

Case study: caffè e cacao

Prendiamo come esempio Nestlé SA per esaminare la filiera del caffè. Combinando i dati della supply chain che Nestlé riporta direttamente sul suo sito web con i dati che l’azienda comunica a CDP Forest, possiamo concludere che tra il 21% e il 30% dei ricavi dell’azienda nel 2021 dipendevano dal caffè. L’azienda ha visibilità sui suoi fornitori di caffè di livello 1 e 2 (il Livello 1 è costituito dai fornitori diretti della materia prima, dove la supervisione è più semplice o più visibile. I fornitori di livello 2 sono fornitori o subappaltatori dei fornitori di livello 1, dove la supervisione inizia a diventare impegnativa) e rende pubbliche queste informazioni, cosa che consideriamo una buona pratica. Sul suo sito web[2], Nestlé riporta infatti diverse centinaia di fornitori di caffè di livello 1 e di livello 2 (magazzini), comprese le città e i paesi in cui sono situati.

In base ai loro report, possiamo anche determinare che i fornitori di caffè di Nestlé sono concentrati in Vietnam, Brasile e Colombia. Questo ci dà un’idea a livello nazionale dell’esposizione al rischio settoriale (come il lavoro minorile in agricoltura, il lavoro forzato nel settore manifatturiero), e ci dà visibilità sulle normative nazionali e sui regimi di applicazione della legge per i fornitori Nestlé.

Figura 9:
Nestlé – Analisi dei fornitori di caffè di livello 1 e di livello 2

Sempre utilizzando i report aziendali e i dati di CDP Forest, abbiamo stimato che dal 6% al 10% dei ricavi di Nestlé SA dipendono dal cacao. In base ai dati pubblici relativi alla supply chain, i maggiori fornitori rimangono in Costa d’Avorio (43%)[3] ed Ecuador (36%).[4] Ciò dimostra che il rischio riguardante la manodopera infantile è altamente rilevante per Nestlé SA a causa delle condizioni di lavoro sia in Costa d’Avorio che in Ecuador: questo aiuta gli investitori ad agire anticipatamente e segnalare internamente i due paesi come un possibile rischio da considerare nel nostro monitoraggio.

Case study: olio di palma

L’olio di palma è un altro esempio di materia prima per la quale è possibile analizzare il rischio di violazione dei diritti umani nei vari livelli della supply chain. Sebbene si tratti di una materia prima altamente rilevante in particolare per P&G, Nestlé e Unilever, sembra esserci poca disclosure sui fornitori di livello 2 e oltre. Delle società analizzate, solo Reckitt attualmente rende noti i fornitori di olio di palma dal Livello 1 al Livello 3 e solo dall’1% al 3% dei ricavi della società dipende dall’olio di palma. Nestlé comunica i fornitori di livello 1 e 2, mentre Unilever PLC i fornitori di livello 1 e i frantoi di olio di palma (sebbene non sia chiaro se questi siano considerati di livello 2 o di livello 1). Va riconosciuto che Unilever[5] e Nestlé[6] mettono a disposizione un elenco di fornitori che sono stati sospesi o con i quali non lavorano più. La consideriamo una buona pratica perché non solo ci rivela la posizione delle aziende in merito ai diversi fornitori ma favorisce anche la trasparenza della supply chain.

Conclusioni

Il settore alimentare globale ha fatto enormi progressi nella gestione e nella divulgazione delle pratiche relative ai diritti umani nelle supply chain. Tuttavia, le informazioni e la capacità di analizzare i rischi legati ai diritti umani rimangono una sfida per gli investitori. Oggi possiamo fare affidamento solo sul giudizio di ciascuna azienda per raccogliere informazioni sulle rispettive supply chain e per determinare quali informazioni vengono rese note e quali rimangono riservate. Attualmente manca una standardizzazione internazionale dei requisiti di rendicontazione.

Riteniamo che gli organismi intergovernativi dovrebbero considerare una priorità assoluta lo sviluppo di questi standard di disclosure collaborando a stretto contatto con enti del settore, aziende e investitori.

[1] United Nations: What are human rights? Human Rights | United Nations. Accesso effettuato il 21 agosto 2023.

[2] https://www.nestle.com/sites/default/files/2019-07/nestle-supply-chain-disclosure-coffee-tier-1.pdf, accesso il 16 febbraio 2023

[3] Si stima che la Costa d’Avorio rappresenti il 43% della produzione mondiale di fave di cacao nel 2021/2022, il Ghana il 20% e l’Ecuador, al terzo posto, il 7%. Il 95% delle fave viene commercializzato sui mercati internazionali delle materie prime. Swiss Platform for sustainable Cocoa. Accesso il 21 agosto 2023.

[4] In Ecuador, in particolare, i dati suggeriscono che l’82,3% dei bambini lavoratori per settore di età compresa tra 5 e 14 anni è concentrato principalmente nell’agricoltura nell’ambito della coltivazione di banane, caffè, cacao, olio di palma e fiori (compreso l’uso di prodotti chimici e machete). R2020 Findings on the Worst Forms of Child Labor: Ecuador (usembassy.gov). Accesso effettuato il 21 agosto 2023.

[5] Unilever.com. Unilever’s suspended palm oil suppliers and growers (with mill list). Aggiornato a giugno 2022.

Accesso effettuato il 21 agosto 2023.

[6] Nestlé.com. Responsibly sourced palm oil. Nestlé Global (nestle.com). Accesso effettuato il 21 agosto 2023.