L’impatto sull’economia del conflitto in Medio Oriente

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Il principale meccanismo di trasmissione delle tensioni in Medio Oriente sull’economia globale sarebbe l’aumento dei prezzi dell’energia. Nell’ultima settimana, il prezzo del Brent è cresciuto, attestandosi intorno ai 91 dollari (al 16 ottobre), tra le crescenti preoccupazioni di disruption all’approvvigionamento che potrebbero, con tutta probabilità, spingere i prezzi molto più in alto in futuro. Dopotutto, in passato le tensioni nella regione hanno causato un’impennata del prezzo del petrolio. L’esempio più drammatico è quello degli anni ’70, quando i prezzi sono quadruplicati a causa della guerra in Medio Oriente.

Ci stiamo muovendo verso la stagflazione?

Di recente, abbiamo analizzato il rischio di uno shock dell’offerta in uno scenario che ipotizzava un aumento dei prezzi delle materie prime. Questo immaginario si basava in gran parte sui tagli alla produzione da parte dei paesi esportatori di combustibili fossili inclusi nel cosiddetto OPEC+, che avrebbero portato il Brent a 120 dollari al barile, spingendo l’economia globale verso la stagflazione rispetto al nostro scenario di base.

L’aumento dei prezzi delle materie prime porta a un aumento dell’inflazione, mentre il rischio di “effetti di secondo impatto” (come l’aumento dei salari e dei prezzi) in un contesto di irrigidimento del mercato del lavoro a livello globale spingerebbe le banche centrali verso ulteriori rialzi dei tassi. Le persistenti preoccupazioni per l’inflazione radicata nell’economia ritarderebbero anche un eventuale passaggio al taglio dei tassi fino alla fine del 2024, il che comporterebbe una politica monetaria più restrittiva anche per tutto il prossimo anno. Una politica monetaria meno accomodante e una pressione sulle famiglie dovuta all’aumento dei prezzi delle materie prime porterebbero a un rallentamento della crescita, con un esito stagflattivo.

La riduzione degli effetti dei passati aumenti dei prezzi dell’energia, successivi all’invasione russa dell’Ucraina a inizio 2022, è stato un fattore chiave per il rallentamento dell’inflazione globale nell’ultimo anno. Ma questa tendenza aveva già iniziato a invertirsi prima dei recenti tragici eventi. L’inflazione energetica del G7, infatti, è passata da -8% annuo di luglio a -1% annuo di agosto. Anche se i prezzi del petrolio rimanessero all’attuale livello di 91 dollari al barile, l’inflazione della componente energetica tornerebbe a essere positiva fino alla prossima estate, prima di svanire nella seconda metà del 2024. I prezzi del petrolio devono salire ancora molto per far deragliare il costante calo dell’inflazione headline.

La rigidità del mercato del lavoro, sottolineata dalla crescita delle buste paga di settembre negli Stati Uniti e dal nuovo minimo storico del tasso di disoccupazione nell’Eurozona ad agosto, fa sì che qualsiasi aumento sostenuto dell’inflazione possa, alla fine, ripercuotersi sugli accordi salariali, rendendo l’inflazione più “vischiosa”, più a lungo. Con la Fed che ha già aperto il dibattito su un ultimo rialzo dei tassi nel suo recente “dot-plot”, le preoccupazioni per gli effetti di secondo impatto potrebbero facilmente far pendere l’ago della bilancia verso un ulteriore aumento a novembre, se i prezzi del petrolio continueranno a salire.

Tuttavia, la minaccia immediata di un aumento dell’inflazione complessiva a causa dell’aumento dei prezzi dell’energia non deve essere sopravvalutata. La nostra analisi mostra, infatti, che i prezzi dell’energia rappresentano solo l’1,7% dell’indice dei prezzi al consumo “core”; ciò significa che l’impatto diretto di un aumento dei prezzi del petrolio sull’inflazione sottostante sarebbe minimo.