Dopo la bolla inflattiva

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I dati economici pubblicati nelle ultime due settimane indicano, quasi senza ombra di dubbio, che crescita e inflazione sono in forte rallentamento. La zona euro è quasi in stagnazione e l’inflazione a novembre si è fermata al 2,4%, il livello più basso da luglio 2021 e solo un soffio al di sopra del target della Banca centrale europea (BCE). Negli Stati Uniti economia e inflazione restano a livelli più elevati, ma ci sono molteplici segnali di decelerazione, a partire dal mercato del lavoro.

Sullo sfondo, la politica e la geopolitica presentano ulteriori incertezze: le elezioni presidenziali americane, quelle europee, le guerre tra Israele e Hamas e tra la Russia e l’Ucraina, oltre alla rivalità tra Cina e Stati Uniti. Tutte incognite che potrebbero avere ripercussioni economiche negative. In questo scenario così complesso, le banche centrali sono obbligate a mantenersi caute nelle dichiarazioni evitando di suggerire tagli dei tassi d’interesse per non innescare reazioni repentine dei mercati, che vanificherebbero gli sforzi fatti finora e renderebbero meno rilevanti le prossime comunicazioni ufficiali.

Cercando di fare una sintesi di tutto ciò, mi sembra probabile che le banche centrali comincino a ridurre i tassi verso la metà del prossimo anno, se non prima, e i rendimenti dei titoli di Stato dovrebbero quindi proseguire la discesa cominciata a novembre. Se allunghiamo lo sguardo ai prossimi anni, la diminuzione dei rendimenti potrebbe essere importante. Dalla crisi finanziaria globale del 2008 si registra
un continuo aumento dell’indebitamento pubblico, che in presenza di tassi d’interesse più elevati è diventato più oneroso. Proprio le politiche di gestione del debito e l’interazione di questa dinamica con le altre grandi tendenze in corso come la demografia, la digitalizzazione, la deglobalizzazione e la transizione energetica caratterizzeranno i prossimi anni.

Sicuramente per affrontare queste sfide saranno necessari grandi investimenti e quindi occorrerà che i costi di finanziamento siano contenuti. Questa necessità potrebbe riportarci a uno scenario di repressione finanziaria, vale a dire rendimenti dei debiti pubblici al di sotto dell’inflazione. Per queste ragioni penso che la finestra che il mercato obbligazionario attualmente offre in termini di rendimenti elevati vada sfruttata, rendendoli duraturi con scadenze medio-lunghe e limitando la liquidità alle effettive necessità.

Le obbligazioni di buona qualità hanno poche probabilità di perdere valore, se tenute a scadenza. E, man mano che l’economia rallenta e l’inflazione scende, gli investitori inizieranno a posizionarsi per una riduzione dei tassi d’interesse, che ne dovrebbe far aumentare le quotazioni. Potrebbero anche presentare un andamento anticiclico: se l’economia dovesse sorprendere in negativo, le banche centrali si vedrebbero costrette ad accelerare i tagli e ciò potrebbe spingere al rialzo le quotazioni delle obbligazioni di buona
qualità con scadenza medio-lunga (l’esatto opposto di quanto avvenuto l’anno scorso).

Anche il mercato azionario beneficia di tassi d’interesse più bassi, che tipicamente spingono verso l’alto il rapporto prezzo/utili (P/E). L’andamento degli utili è visto in leggero aumento il prossimo anno ma, in un contesto di bassa crescita economica, potrebbe rivelarsi molto eterogeneo tra settori produttivi e singoli emittenti. Le azioni di società con buona redditività e poco debito, compreso il settore tecnologico, dovrebbero essere meglio posizionate in questo contesto.

Soprattutto considerando la porzione dei portafogli orientata al lungo termine, le società più innovative, posizionate su trend come l’intelligenza artificiale e la transizione energetica, offrono un potenziale significativo a lungo termine, sia nei mercati pubblici che in quelli privati.