Flossbach von Storch: ESG – ecco perché non è possibile una sola interpretazione

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Nell’immaginario collettivo, si tende ad associare la parola “verde” a un solo aspetto di ciò che si intende comunemente con “sostenibile”. Per definizione, la sostenibilità dovrebbe infatti combinare aspetti ambientali, sociali ed economici. Questo approccio a più livelli crea complessità, stabilire cosa sia un prodotto socialmente desiderabile o un’attività positiva è sempre questione di prospettiva individuale. Ci giocano svariati fattori, come le convinzioni politiche, il livello di conoscenza, l’esperienza personale, la propria origine, l’età o la fascia di reddito. Senza dimenticare ciò che accade nel resto del mondo. In tempi di guerra e di crisi, ad esempio, la visione della sostenibilità cambia.

Come se non bastasse, le singole dimensioni della sostenibilità possono viaggiare su binari indipendenti o addirittura entrare in conflitto. È molto probabile, ad esempio, che le misure di tutela ambientale generino dei costi per l’azienda o l’individuo. Dal canto loro, i risparmi sui costi necessari dal punto di vista economico possono implicare licenziamenti che vanno a intaccare la sfera sociale. A quale aspetto viene attribuita la priorità o la ponderazione maggiore è una questione di metodologia o di prospettiva.

Per le aziende a complicare le cose c’è anche un altro fattore: la loro immagine pubblica di realtà sostenibili può riferirsi ai prodotti e ai servizi che offrono o alle condizioni di lavoro nei rispettivi stabilimenti e lungo la catena del valore. Un’azienda sostenibile è quella che offre prodotti attualmente molto richiesti, come ad esempio i veicoli elettrici? O è quella che riesce a fornire prodotti e servizi utilizzando meno risorse possibili e assicurando le condizioni di lavoro migliori? A volte le differenze tra queste due aree di impatto possono essere notevoli.

In altre parole, quando si tratta di sostenibilità non si può ragionare in “bianco e nero”, facendo una netta distinzione tra buoni e cattivi. Ma il bisogno di univocità è talmente forte che le persone tendono a ignorare le informazioni che non sono in linea con le loro idee e a prestare maggiore attenzione a quelle che invece si adattano alla loro visione già consolidata del mondo. Se ad esempio abbiamo avuto una buona esperienza con un fornitore o un’azienda (non solo per le questioni ESG!), tendiamo a prestare maggiore attenzione alle lodi fatte a quell’azienda per il suo uso responsabile delle risorse rispetto alle notizie che denunciano il contrario e viceversa. Ciò significa che un’immagine particolarmente ecologica di un’azienda può portare a ipotizzarne un comportamento esemplare anche sul piano sociale o economico.

La sostenibilità è una questione complessa ed è quindi legittimo il tentativo di rendere l’argomento più comprensibile. In questa impresa i fornitori di rating sono particolarmente abili. Le valutazioni ESG sintetizzano le informazioni relative agli aspetti ambientali, sociali e di governance assegnando un punteggio che può andare da A a E. Ancora una volta, il desiderio di univocità e semplicità spiega perché classifiche, valutazioni e sigilli sono così apprezzati: perché condensano molte informazioni in un semplice numero o in una lettera. In questo modo il nostro cervello ottiene una risposta rapida, senza dover prima cercare e soppesare le informazioni. A quel punto, poco importa quale sia la metodologia alla base di una classifica o di una valutazione o il fatto che alcuni aspetti non si prestino ad essere giudicati con semplici numeri. Un’altra forma di semplificazione molto utilizzata sono le serie di criteri che determinano una classificazione chiara. Nel settore finanziario questo metodo è noto come tassonomia.

L’obiettivo della tassonomia dell’UE è identificare le attività economiche classificate come sostenibili al fine di indirizzare i flussi di capitale verso questi ambiti. Ciò comporta un processo di mediazione politica, al termine del quale si giunge a una decisione che magari non è condivisa da tutti, ma che è il risultato di un processo trasparente ed è quindi valida in quel momento. Tutte le attività presenti nell’elenco così elaborato sono considerate sostenibili. Ovviamente, non è per forza vero il contrario.

Attualmente la tassonomia si riferisce solo agli aspetti ambientali, quindi perlomeno non sussiste il problema della multidimensionalità. Inoltre, la categorizzazione supera la questione della prospettiva. Questo processo non è sempre privo di difficoltà, come dimostra il dibattito sulla classificazione delle attività per la produzione di elettricità da energia nucleare e gas.

Semplificazioni, definizioni e indicazioni chiare sono importanti per trasmettere con immediatezza il concetto di sostenibilità. La troppa incertezza o l’eccessiva complessità informativa – come dimostrano alcuni studi sul comportamento dei consumatori – possono anche tradursi in riluttanza e inerzia. D’altro canto, però, un’apparente chiarezza non protegge dal bisogno di spiegazioni e dalla frustrazione.

Le classifiche ESG sono adatte per una valutazione rapida e approssimativa, ma non per una panoramica differenziata delle molteplici caratteristiche. Se si utilizzano i punteggi in modo incondizionato e acritico, si rischia una perdita di fiducia. Ad esempio, gli investitori potrebbero rimanere molto delusi se un’azienda con un buon rating ESG venisse improvvisamente coinvolta in un grave scandalo, a dispetto di un rating che non lasciava in alcun modo presagire un tale rischio. In tal caso, un riflesso tipico sarebbe quello di mettere in discussione la qualità del rating, invece di ammettere che, semplicemente, quella valutazione non era adatta a formulare un giudizio a 360 gradi. La frustrazione nasce anche quando si investe in fondi a impatto o in prodotti sostenibili, ma questi generano rendimenti a lungo termine inferiori rispetto agli omologhi “convenzionali” o meno “clean”.

Negli esperimenti sui beni comuni, una delle maggiori frustrazioni deriva dalla sensazione di apportare un contributo positivo verso un obiettivo condiviso, mentre tutti gli altri non solo si sottraggono al proprio dovere, ma addirittura sfruttano a loro vantaggio l’impegno di pochi. La cosiddetta “tragedia dei beni comuni” mostra come questa situazione inneschi rapidamente un circolo vizioso in cui, alla fine, nessuno più utilizza le risorse per il bene comune e, di conseguenza, nessuno trae più beneficio dagli obiettivi condivisi. Un meccanismo che va a svantaggio di tutti.

Dal momento che nessuno può (o vuole) sopportare a lungo uno stato di frustrazione, le reazioni (psicologiche) sono talvolta drastiche. Ad esempio, si rinuncia o ci si rifiuta di integrare i criteri di sostenibilità o, al contrario, si esalta moralmente o si attribuisce una priorità assoluta all’argomento – suscitando una conseguente reattanza altrove. Entrambe le reazioni possono mettere a repentaglio lo scopo stesso che si intende perseguire, ossia allineare le attività economiche agli obiettivi socialmente desiderabili. Ecco perché la trasparenza e il dialogo sulle diverse opinioni e prospettive – il mio verde e il tuo verde – e la disponibilità a integrare nuove informazioni nelle proprie visioni sono essenziali per continuare a lavorare in modo costruttivo verso un mondo più sostenibile.