La bussola macro di Assiteca SIM

Enrico Ascari -
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Il quadro macro globale

Nel mese di febbraio, dopo un lungo periodo di quiete (o catalessi), si è manifestato un improvviso fenomeno di elevata volatilità sul mercato azionario americano di portata (contagio e durata) per ora ridotta. Le motivazioni ex post dell’evento, come sempre costruite sulla base di correlazioni opinabili, fanno riferimento a fattori interni tecnici di mercato. Come catalizzatore del fenomeno si è indicato un dato inflazionistico congiunturale, obiettivamente, di per sé, di scarsa rilevanza, più alto del previsto.

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Il primo segnale di un innalzamento della volatilità sui mercati, fenomeno fisiologico e da tempo atteso – perfino auspicato come fattore riduttivo della probabilità di maggiori guai in futuro – non ha inquinato il quadro macro caratterizzato da un andamento sostenuto del ciclo economico internazionale.

L’economia globale è ancora in un forte sincronizzato rialzo che dura ormai da due anni. Le ultime previsioni Fulcrum nowcasts non mostrano segni di rallentamento nel tasso di crescita globale che rimane attorno al 4,5%, quasi un intero punto percentuale sopra il trend di lungo termine.
Nel corso dell’ultimo mese hanno trovato alimento aspettative di inflazione in crescita sotto la spinta di prospettiche pressioni salariali (in USA e Germania), proprio mentre andava raffreddandosi la dinamica dei prezzi petroliferi.

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Sia pure tra molti dubbi, si è consolidato un leggero aumento dei tassi reali (USA), ma la tendenza dei tassi nominali sul comparto decennale non ha ancora superato livelli considerati simbolicamente determinanti come conferma di inversione del trend secolare (il 3%). Il dollaro ha avuto un andamento meno unidirezionale (oggetto di acquisti nelle fasi di risk off), pur con un rafforzamento delle aspettative di debolezza indotta e desiderata dai policy makers USA. La valuta a stelle e strisce per ora rimane intrinsecamente debole, ma il suo futuro è in definitiva nelle mani della Fed.

Economia USA

Le “minutes” del FOMC di gennaio confermano l’ipotesi di una crescita moderata, ma in accelerazione oltre il livello stimato come “sostenibile” nel lungo termine. In parallelo si consolidano aspettative inflazionistiche più sostenute rispetto a quelle prevalenti negli ultimi anni.
Entrambi i fenomeni, per ora, sono considerati “virtuosi” ma l’attenzione degli occhiuti vigilanti si è alzata di livello. Il mercato ne ha preso atto. Nel breve termine, anche gli esperti “indipendenti” danno per certo un anno di forte congiuntura, alimentata da investimenti e consumi (c’è chi vede il tasso di disoccupazione scendere verso il 3,3%) e da un mix di politiche monetarie e fiscali fin troppo benigno. Se sulla prima l’incertezza rimane (e sono questi dubbi a frenare per ora i furori rialzisti della borsa), sulla politica fiscale Trump, con la nota riduzione delle aliquote (maggior deficit per 150 miliardi all’anno), e il Congresso (altri 400 miliardi di deficit in due anni) hanno ampiamente dimostrato di voler schiacciare al massimo il pedale dell’acceleratore. In definitiva (cfr. grafico) il mercato ritiene più probabili (al 30%) quattro aumenti dei tassi da parte della Fed nel 2018.

Ovviamente non mancano i “gufi” (quando mai?): i rischi di breve (quelli che in definitiva interessano gli investitori) si distillano nel ritorno di moda del tormentone anni 80/90 dei twin deficit, con corollario di inflazione/svalutazione. Si ipotizza un tasso d’inflazione headline a fine anno (anche per fattori statistici) vicino al 3%. Nel lungo termine, invece, si rimane in attesa di conferme dalla crescita della produttività, il grande assente degli ultimi anni e rimane aperta l’opzione di un ritorno verso la bassa crescita. Ovviamente nessuno prevede una recessione.

Europa

La crescita dell’attività nell’area Euro resta in linea di massima sostenuta e superiore a quella delle altre principali aree economiche. Ciò nonostante l’ultimo indicatore composite PMI è stato leggermente inferiore alle attese: un primo segnale di un Euro troppo esuberante?

Italia

Secondo le nuove stime di Bankit l’economia italiana nel triennio 2018-2020 crescerebbe dell’1,4% nell’anno in corso e dell’1,2% nel 2019-2020. L’attività economica sarebbe trainata principalmente dalla domanda interna. La velocità di crociera ipotizzata è allineata alla crescita del PIL potenziale. L’attività economica sarebbe trainata principalmente dalla domanda interna. L’inflazione scenderebbe temporaneamente quest’anno e tornerebbe poi a salire in modo graduale. La proiezione di una flessione nel 2018 (all’1,1% in media d’anno) è riconducibile soprattutto all’esaurirsi dell’effetto del rincaro dei beni energetici e alimentari avvenuto all’inizio del 2017. Nel prossimo biennio i prezzi tornerebbero a salire dell’1,5% in media annua, riflettendo un progressivo rafforzamento della crescita delle retribuzioni. Sono evidentemente proiezioni “centrali” che, molto probabilmente, non si realizzeranno. L’ipotesi più probabile è che lo scenario che troverà riscontro sarà significativamente diverso da quello previsto; difficile immaginare in quale direzione (cioè se in senso reflattivo o deflattivo). Molto dipenderà dall’evoluzione dell’economia globale, ma tale evoluzione è probabile che venga comunque recepita con un mix distorto della combinazione tra crescita reale e inflazione. È vero che tra i rischi di origine interna si sono ridotti quelli endogeni connessi alla debolezza del sistema creditizio e, forse, quelli legati all’incertezza di famiglie e imprese sull’intensità della ripresa in atto. Su questo fronte però non può essere trascurata l’incombente discontinuità sul fronte politico collegata all’esito delle imminenti elezioni. Il rafforzamento del clima di fiducia deriva infatti dal “proseguimento di politiche economiche in grado, da un lato, di favorire la crescita dell’economia nel lungo termine ostenendo le scelte di investimento e di consumo e, dall’altro, di assicurare credibilità al percorso di riduzione del debito pubblico sfruttando il momento favorevole dell’economia gobale”. Questo quadro presuppone condizioni finanziarie ancora accomodanti, con un aggiustamento molto graduale dei tassi di interesse a breve e a lungo termine, condizioni ordinate sui mercati dei titoli di Stato e criteri di offerta di credito relativamente distesi. Sono scenari certamente non assicurati neppure nel caso in cui il governo attuale possa proseguire il suo lavoro senza eccessivi vincoli.

Cina

Alcuni dati confermano la virtuosa prosecuzione del delevereging nell’ambito del settore bancario, shadow o meno. Altri riflettono una ripresa alla grande della fiducia, alimentata dalla ripresa dei prezzi immobiliari, che ha aumentato di 13,5 trilioni di dollari il valore complessivo delle proprietà residenziali negli ultimi due anni. Nel frattempo la crescita dei consumi (soprattutto di lusso) è tornata rampante, con recuperi a doppia cifra che si aggiungono a quelli del 2017, dopo il calo del 2016.

Mercato azionario USA. Un cenno

Malgrado il cambio di regime della volatilità, i trend consolidati a Wall Street rimangono inattaccabili. Oltre il 75% della performance dello S&P 500 da inizio anno si deve alla tecnologia e in particolare ad Amazon, Apple, Microsoft e Netflix. I settori dei consumi di beni di prima necessità e farmaceutico proseguono il loro trend negativo in termini di forza relativa rispetto al mercato. Anche il settore energetico ha nuovamente mostrato segni di debolezza. In estrema sintesi rimangono ancora validi i seguenti principi base: Wall Street detta la direzione per i mercati globali e in media le performance dei titoli americani rimangono migliori di quelle dei mercati europei in qualsiasi scenario, tranne (forse) quello dello scoppio di una bolla che si sta ancora
gonfiando con tranquillità. Ciò deriva sia dalla diversa composizione settoriale e la diversa qualità media del listino che dalla consapevolezza che in qualsiasi scenario di mercato Wall Street sarebbe avvantaggiata. In effetti, se prevale uno scenario “too hot” (inflazionistico) l’indebolimento del dollaro, a parità di altre condizioni sfavorisce i listini europei; anche ne caso in cui la Fed fosse costretta ad alzare i tassi oltre le aspettative e il dollaro recuperasse con un calo delle borse si ritiene Wall Street più performante (anche per l’effetto cambio). Viceversa in uno scenario di ritorno verso la “grande stagnazione” sarebbero ulteriormente avvantaggiati i titoli “growth” che dominano gli indici statunitensi.

Mercati obbligazionari

È il mercato USA al centro del mirino, con un visibile aumento dei tassi reali. Le attese però non incorporano certo drammi dato che la curva forward viaggia al 3% sul decennale atteso a fine 2018. Ciò da una parte rassicura (le aspettative sulla politica della Federal Reserve non si sono mosse), dall’altra preoccupa e porta in evidenza il punto chiave: l’inflazione (inattesa) che deriverebbe da un’economia too hot inevitabilmente costringerebbe la Fed a darsi da fare ovvero a portare i tassi a lungo ben oltre la soglia del 3%, capottando infine anche il mercato azionario americano.

Il mistero è come possano ancora rimanere così bassi i tassi nell’area Euro. È vero che il rafforzamento valutario ridimensiona le aspettative inflazionistiche, ma è anche vero che il term premium dovrebbe cominciare ad alzarsi anche nel vecchio continente. Almeno quello, senza neppur pensare agli spread creditizi e alle possibili conseguenze di una ripresa delle tensioni politiche che, per ora, malgrado le imminenti elezioni in Italia, sembrano sopite.

Conclusioni

  • Il recente aumento della volatilità sui mercati è fisiologico e, da vari punti di vista, opportuno. Non è in grado, per ora, di minare i livelli di fiducia nell’ambito dell’economia reale.
  • La crescita dell’economia globale prosegue guidata da Europa e Stati Uniti. Nei prossimi mesi, in assenza di sorprese, è verosimile che si rafforzi negli Stati Uniti (politica fiscale) e si indebolisca in Europa (euro forte).
  • La view sul dollaro è bilanciata tra pro e contro (contro: policy makers americani disinvolti, politica fiscale estremamente aggressiva negli Stati Uniti; pro: direzione attesa crescita, politica monetaria e tassi favorevole al dollaro).
  • Rimane aperto uno scenario tipo “1999” per il mercato azionario americano (forte rialzo), ma i rischi salgono. Il rischio peggiore è quello di una Fed costretta a uccidere l’espansione per inflazione che sale troppo.
  • Mercati Europei visti peggio di quello americano in ogni scenario. In Italia può continuare un parziale decoupling post elezioni se si evita lo scenario peggiore (come scontano i mercati) con la ripresa dei titoli del settore bancario.
  • Tassi nella zona euro ancora troppo bassi sia nel presente che in prospettiva, che rendono fortemente sconsigliato l’investimento in obbligazioni con duration medio/lunga.

 Enrico Ascari – membro del Comitato Investimenti – Assiteca SIM