Quanto possono salire ancora i tassi?

Team Research & Investment Strategy di AXA Investment Managers -
- Advertising -

Mentre l’economia continua ad accelerare e l’inflazione sale, ci si chiede quando anche i tassi di interesse inizieranno a salire sul serio.

Nell’ultimo anno il rendimento delle obbligazioni decennali USA è salito dal 2,04% (minimo del 2017) al 2,89% di oggi, mentre il rendimento dei Bund è salito di ben 16 punti base, a 58 p.b. nell’arco dello stesso periodo.

- Advertising -

Le decisioni senza precedenti sul fronte della politica monetaria e anni di stagnazione hanno diffuso una certa dose di scetticismo sul “quando” o persino sul “se” i tassi di interesse saliranno effettivamente. Per dare una valutazione il più possibile oggettiva, siamo partiti dai fondamentali. Questo riesame del funzionamento dei tassi di interesse ci ha portato a prevedere che i rendimenti decennali negli Stati Uniti saliranno entro la fine del 2020 al 4% e il rendimento dei Bund al 2%.

Esaminiamo i calcoli per gli Stati Uniti per spiegare come siamo arrivati a questa conclusione. Partiamo dal noto presupposto che i rendimenti obbligazionari si possono scomporre nelle aspettative sul percorso della politica monetaria in merito ai tassi e nella remunerazione che gli investitori richiedono per assumere il rischio di incertezza sulle dinamiche monetarie, quello che viene definito premio a termine.

- Advertising -

Per i tassi di interesse, usiamo la variabile r* (una variabile non osservabile che richiede quindi una buona dose di giudizio e la definizione di modelli). r* stima i tassi di interesse ufficiali partendo dal divario tra produzione effettiva e potenziale (ovvero la differenza tra la crescita osservata e la crescita in caso di piena occupazione) e dalla distanza tra l’inflazione corrente e il target della banca centrale. Arricchiamo dunque il modello con l’impatto della regolamentazione post-crisi e della leva finanziaria. Questo ci dà una stima di r* negli Stati Uniti (ovvero il tasso di interesse reale di equilibrio a breve termine) che prevediamo in lento rialzo all’1,25% entro il 2020.

Per i tassi di interesse a lungo termine, aggiungiamo l’effetto della fine del quantitative easing, circa 40 p.b. all’intensificarsi dell’incertezza della politica monetaria man mano che procediamo verso il futuro, con l’aggiunta di altri 60 p.b. al premio a termine attuale. Considerando le aspettative inflazionistiche, il rendimento decennale USA si dirige verso il 4% entro il 2020. Presupponendo che il deficit negli Stati Uniti salga intorno al 5% del Pil e resti su tali livelli fino al 2020, potremmo ipotizzare altri 30 p.b.

Dunque, a che punto siamo? Tre importanti considerazioni

Primo, la nostra previsione che i tassi di interesse potrebbero salire verso il 4% entro il 2020 riflette la robusta accelerazione economica che ci ha finalmente allontanati da un’inflazione persistentemente bassa, consentendo alla politica monetaria di lasciare il centro del palcoscenico. Questa accelerazione probabilmente proseguirà negli Stati Uniti, poiché gli indicatori sono sempre più robusti e la maggior parte degli indici ISM ha registrato massimi che non si vedevano del 2004. Analogamente, sull’altra sponda dell’Atlantico, gli indicatori economici confermano le nostre previsioni per una crescita del Pil nell’Eurozona oltre il consensus al 2,7% nel 2018. E, come previsto, considerate le stime formulate durante le precedenti fasi di espansione, il consensus (oggi al 2,3%) sembra avvicinarsi progressivamente. L’inflazione nell’Eurozona dovrebbe risalire lentamente verso il 2% nel 2019, ma negli Stati Uniti dovrebbe attestarsi oltre tale soglia.

Secondo, i rischi probabilmente sono più evidenti oggi rispetto a prima della crisi finanziaria. Innanzitutto, se l’inflazione dovesse accelerare, magari per via dei dazi commerciali, potrebbe mettere sotto pressione i tassi di interesse in modo imprevisto. Nonostante il fatto che il Presidente della Banca centrale europea (BCE) Mario Draghi, in occasione della recente conferenza stampa, ci abbia dato una grande lezione di comunicazione coi mercati, non ha fatto altro che confermare il processo in corso di normalizzazione della politica monetaria, aggiungendo che il calo della domanda di obbligazioni da parte della banca centrale dovrebbe produrre un ribilanciamento di domanda e offerta che metterebbe ulteriormente sotto pressione i tassi, specialmente negli Stati Uniti. Si aggiunga a questo il rischio politico in Italia e geopolitico in Asia e in Medio Oriente (che non siamo in grado di quantificare), e il potenziale di deviare da questo “perfetto” scenario risulta relativamente alto… e non scontato.

Infine, in prospettiva futura, facciamo attenzione alla possibilità di una “nuova normalità”, un mondo in cui i tassi di interesse, per quanto al rialzo, siano ancora inferiori ai livelli prima della crisi, mentre il livello del debito è più alto e lo spazio di manovra sul fronte fiscale per affrontare questa fase di rallentamento risulta ristretto. Il rapporto tra debito e Pil negli Stati Uniti dovrebbe essere oltre il 100% quest’anno, mentre nell’Eurozona dovrebbe attestarsi mediamente intorno al 90%, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Anche se si potrebbe aggiungere che questo vale principalmente per l’Eurozona, dove Francia e Germania faticano a trovare un accordo sull’uso della politica monetaria e fiscale nelle fasi di ribasso, vale anche per gli Stati Uniti, dove l’attuale amministrazione ha lanciato segnali contrastanti sull’indipendenza della Federal Reserve.
Speriamo che il ciclo invecchi bene, indisturbato dal rumore politico.

Invariate le nostre previsioni di crescita

In tale scenario, la nostra asset allocation riflette la costante accelerazione della crescita, le nostre aspettative di un lento rialzo dei tassi e l’incertezza non quantificabile. Conserviamo una posizione sovrappesata negli strumenti sensibili alla crescita (azioni, high yield e debito dei mercati emergenti), con qualche precisazione. Per le azioni, anche se abbiamo chiuso la posizione negli Stati Uniti dopo la fase di volatilità di febbraio, abbiamo incrementato in modo tattico la nostra posizione con ottimi risultati. Manteniamo il sovrappeso soprattutto nelle banche europee e nei mercati emergenti.

Coi tassi di interesse a lungo termine saliti di circa 30-40 p.b. da dicembre, è andata bene. Dunque è possibile che i mercati si consolideranno sui livelli attuali (o persino leggermente inferiori) nel breve periodo. Eppure, persistono rischi asimmetrici per le posizioni in duration e i nostri scenari alternativi segnalano una correzione più brusca. Di conseguenza manteniamo la posizione strutturale short sulla duration.

Relativamente al credito, prevediamo un lieve ampliamento degli spread nei prossimi mesi. Coi tassi di interesse a lungo termine negli USA di circa 75 p.b. oltre la media a tre anni, ci stiamo avvicinando a un livello in cui gli spread di credito potrebbero risentire del rialzo dei tassi di interesse. Ci aspettiamo dunque che proseguano le dinamiche reflazionistiche che portano alla sovraperformance dell’high yield rispetto al debito investment grade, ma la direzione del rendimento complessivo sarà condizionata dall’andamento dei tassi di interesse sottostanti.

Dato che le nostre previsioni macroeconomiche non sono cambiate, e in assenza di eventi particolari, non abbiamo apportato variazioni alla nostra view sui cambi e confermiamo l’orientamento positivo su yen e euro. Confermiamo il target di fine anno per il cambio euro/dollaro a 1,28.