Domande e risposte: ciclo del credito e tassi d’interesse

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Abbiamo chiesto l’opinione di Alasdair Ross riguardo alla nostra posizione nel ciclo del credito, alla futura dinamica dei tassi d’interesse e al potenziale impatto sui mercati obbligazionari di una conclusione anticipata del mandato di Trump.

Come definirebbe il ciclo del credito?

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In genere, quando si parla di ciclo del credito, si pensa alla facilità con cui i mutuatari possono accedere ai prestiti e alla disponibilità dei prestatori a concedere finanziamenti. Dieci anni fa la stretta creditizia ha messo in discussione la solvibilità dei mutuatari, e i prestatori non hanno più potuto o voluto concedere finanziamenti. I bilanci aziendali erano eccessivamente appesantiti e il sistema bancario era sovracapitalizzato. Da allora le aziende hanno impiegato i cash flow generati dagli utili per ridurre l’indebitamento e rafforzare i bilanci. Di conseguenza, la qualità creditizia delle società è gradualmente migliorata e i prestatori sono divenuti più disponibili a concedere finanziamenti, alimentando così la crescita degli utili e dell’attività economica. Siamo così entrati in una fase di ripresa in cui il credito ha cominciato a fluire più liberamente, la crescita economica ha registrato un’accelerazione e la redditività è migliorata. Quello in cui ci troviamo attualmente è l’ultimo stadio del ciclo, la fase di espansione: gli utili sono particolarmente solidi, ma vengono trasferiti agli azionisti sotto forma di dividendi, riacquisti di azioni e operazioni di fusione e acquisizione, e quindi l’indebitamento nei bilanci societari registra alcun miglioramento. Dopo di che, la dinamica degli utili dovrebbe subire un’inversione, e i prestatori diverranno nuovamente riluttanti a concedere finanziamenti.

Siamo quindi vicini alla fine del ciclo?

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Questo è il grande dibattito che infiamma le piazze obbligazionarie e l’insieme dei mercati. Siamo fermamente convinti di trovarci nella fase finale del ciclo, alla luce di una serie di segnali tipici di questo stadio: riacquisti di azioni, attività di fusione e acquisizione, sovraperformance dei mercati azionari rispetto ai mercati del credito, e cash flow impiegati per remunerare gli azionisti. È stato un ciclo lungo, principalmente perché la politica monetaria straordinariamente accomodante ne ha alimentato l’espansione, e negli Stati Uniti il recente stimolo fiscale ne ha favorito l’ulteriore prolungamento.

Naturalmente è difficile prevedere esattamente quando il ciclo si concluderà. Riteniamo che la prossima tappa importante sarà il passaggio alla fase di contrazione, che generalmente non coincide con un periodo molto favorevole per gli attivi rischiosi; il prossimo passo sarà quindi al ribasso, e per gli investitori non sarà certo il momento di adottare un posizionamento aggressivo sul rischio di credito nei portafogli.

Quali sviluppi si aspetta sul fronte dei tassi d’interesse, in particolare nel Regno Unito, e quali sono le implicazioni per i mercati obbligazionari?

Nei mercati obbligazionari i prezzi dei titoli sono inversamente correlati al livello dei tassi d’interesse; quindi se i tassi aumentano, i prezzi diminuiscono. Sul Regno Unito incombe la grande nube della Brexit, che resta al centro dell’attenzione della Bank of England e di Mark Carney. Indipendentemente dall’esito atteso dei negoziati sulla Brexit, l’incertezza rende la BoE più prudente riguardo a un rialzo troppo aggressivo dei tassi d’interesse prima del 29 marzo 2019 o successivamente a tale data. Il mercato sconta una probabilità di circa il 50% che il prossimo aumento dei tassi britannici avvenga ad agosto 2019, in netto contrasto con lo scenario negli Stati Uniti, dove prevediamo un nuovo rialzo a dicembre dopo quello effettuato a settembre. In assenza di un reale decollo delle retribuzioni, mi aspetto che la BoE rimanga prudente, in attesa di maggiore chiarezza sugli sviluppi futuri.

Quindi le sue aspettative per il futuro sono piuttosto moderate?

Assolutamente. Uno degli aspetti sorprendenti della ripresa successiva al 2009 è la diminuzione della disoccupazione, che specialmente in economie come il Regno Unito e gli Stati Uniti è generalmente accompagnata da una decisa accelerazione della crescita dei salari. Negli ultimi anni si sono registrati aumenti occasionali, ai quali però ha sempre fatto seguito una diminuzione.

Prevediamo che la disoccupazione continuerà a calare e che l’inflazione aumenterà, ma quest’ultima continua ad essere frenata da quattro importanti tendenze strutturali emerse nel corso dell’attuale ciclo: la globalizzazione, l’impatto della tecnologia, l’invecchiamento della popolazione e livelli di indebitamento persistentemente elevati in economie come il Regno Unito e gli Stati Uniti. Tutti questi fattori inibiscono l’inflazione.

Negli Stati Uniti in particolare, quale potrebbe essere l’impatto sui mercati obbligazionari di una conclusione anticipata del mandato di Trump?

Negli Stati Uniti il mercato obbligazionario sembra considerare gli sgravi fiscali e la solida crescita degli utili e del PIL come un’occasionale sferzata di energia, mentre le aspettative d’inflazione a lungo termine, che si situano attorno al 2%, sono rimaste invariate.

Quindi, se Donald Trump uscisse di scena, lasciando il campo a un Partito Repubblicano più tradizionale e conservatore sul fronte fiscale, le prospettive a lungo termine per il mercato obbligazionario realmente non cambierebbero in termini di aspettative d’inflazione a lungo termine o di profilo di crescita reale dell’economia statunitense.