Il mercantilismo di Trump

Didier Saint-Georges -
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Il problema del mercantilismo del XXI secolo è che le sue conseguenze economiche potrebbero essere molto diverse da quelle che si ebbero quando questa teoria economica fu attuata per la prima volta in Europa nel lontano XVII secolo.

L’atteggiamento adottato in politica commerciale dagli Stati Uniti nei confronti della Cina, ma anche dell’Europa e, più recentemente, dell’India, si inserisce in un momento delicato del ciclo economico statunitense e nel breve termine mette a rischio un’economia che manifesta già segnali di rallentamento: infatti negli ultimi dodici mesi l’economia globale si è contratta in maniera significativa e la dinamica statunitense, pur rimanendo superiore a quella di molti suoi partner commerciali, inizia inevitabilmente a risentire dell’inversione di rotta dell’economia internazionale. In tale contesto, le tensioni e le incertezze crescenti sono un deterrente agli investimenti particolarmente forte. Con l’economia che rallenta, è sempre più difficile per le aziende decidere piani di investimento massicci se non conoscono l’impatto dei negoziati del governo sulla domanda finale dei propri prodotti o sulla competitività dei prezzi applicati, per non parlare delle ripercussioni finali sulla supply chain, che negli ultimi dieci anni si era provveduto a globalizzare per ottimizzare l’efficienza.

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Se si guarda oltre il breve termine poi, la questione si fa molto più complessa. Assistiamo in realtà a una crescente ribellione contro il libero commercio da parte dell’amministrazione statunitense. L’argomentazione addotta è a prima vista perfettamente coerente: il libero commercio, o liberismo economico, si proclama come il sistema economico più idoneo a promuovere la crescita economica ottimale di tutti i partner commerciali. Ma se qualcuno trucca le carte, chi gioca seguendo le regole è inevitabilmente penalizzato. Poiché l’amministrazione USA sostiene che tutte le più grandi nazioni tranne gli Stati Uniti barano, quindi la Cina, ma anche l’Unione europea, l’India, il Messico, ecc..Di conseguenza, l’autentico libero scambio è a tutti gli effetti già scomparso, sostituito da una lotta tra paesi mercantilisti, alla quale l’amministrazione Trump è ben contenta di partecipare.

Nei secoli scorsi, Inghilterra, Francia e Olanda avevano “inventato” il mercantilismo. All’epoca, ma ancora oggi, l’idea alla base era che la crescita economica, il commercio globale, la creazione di ricchezza in generale fossero un gioco a somma zero. In altri termini, contrariamente al liberismo economico che fu teorizzato successivamente dai suoi fondatori, a cominciare da Adam Smith e Ricardo, il mercantilismo è un sistema composto da vincitori e vinti e tutti competono per accaparrarsi la fetta più grande di una torta non infinita. Inutile dire che in un sistema simile, i giocatori che hanno in mano le carte più forti sono pronti a giocarle per trarne il maggiore vantaggio. Nel XVII secolo, i paesi colonialisti europei non si fecero alcun problema a sfruttare le loro colonie lontane per arricchirsi, con l’intento, in primis, di costruire un solidissimo settore manifatturiero attraverso un massiccio intervento statale, ma anche proteggendo le principali imprese nazionali dalla competizione estera, aiutandole a esportare le loro merci e costringendo le colonie ad acquistarle. Questo sistema rese i paesi mercantilisti europei delle vere e proprie potenze commerciali che riuscirono ad accumulare enormi quantità d’oro, l’unica e incontrastata unità misura della ricchezza e del successo dell’epoca.

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Tuttavia, il sistema cominciò a vacillare quando divennero oltremodo evidenti due delle sue conseguenze più dirette: innanzitutto, quando i paesi vincitori divennero sempre più ricchi, impoverendo i loro partner commerciali al punto da non poter più acquistare le loro merci; e in secondo luogo, le lotte per aggiudicarsi la fetta più grossa della torta portarono a ripetute e sempre più onerose guerre tra i contendenti.

Oggi questi temi fanno ancora parte dei rischi a lungo termine da tenere in considerazione se la lotta mercantilistica ingaggiata in questo momento dovesse diventare la nuova regola del commercio mondiale.

Inoltre, le ramificazioni di un successo del mercantilismo sarebbero oggi più complesse. Se gli Stati Uniti dovessero trionfare in questa loro crociata, la crescita domestica ne trarrà vantaggio, con conseguenti maggiori investimenti esteri nel paese (attratti da rendimenti netti più elevati) e il commercio inizierà a generare eccedenze. Ma questi risvolti favorevoli faranno logicamente crescere la domanda di dollari USA, il cui valore aumenterà, con ripercussioni negative sulle esportazioni. In altri termini, il rafforzamento del dollaro USA sarà lo scotto da pagare per il tentativo di arricchire il paese, come fecero tre secoli fa Francia e Inghilterra accumulando oro. E naturalmente, per complicare ulteriormente il quadro, sorge un’altra domanda: la politica monetaria di oggi, neppure lontanamente abbozzata all’epoca del Mercantilismo 1.0, può essere influenzata per evitare che il dollaro si apprezzi? La pressione esercitata oggi da Donald Trump sul presidente della Fed Jay Powell può essere letta alla luce di questo contesto.

La conclusione è: i numeri dell’economia statunitense sono ancora buoni e questo colloca il paese in una posizione di forza; ma la politica commerciale farebbe bene a non giocare troppo aggressivamente le sue carte.


Didier Saint-Georges – Managing Director e Membro del Comitato Investimenti – Carmignac