Il cambio di narrazione delle banche centrali

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La settimana scorsa è stata dominata dagli annunci delle banche centrali. Mercoledì la Federal Reserve (Fed) ha alzato i tassi di un quarto di punto e non ha chiuso completamente la porta a ulteriori rialzi. Il giorno successivo è toccato alla Banca centrale europea (BCE) alzare i tassi per la nona volta consecutiva di altri 25 punti base (pb) e un ulteriore aumento sembra probabile in autunno. In entrambi i casi, i tassi hanno raggiunto livelli che non si vedevano da oltre vent’anni.

Nelle rispettive conferenze stampa sono emerse alcune differenze. Il Presidente della Fed, Jerome Powell, ha indicato che l’istituto potrebbe tagliare i tassi anche prima che l’inflazione raggiunga il target del 2% per evitare di tenerli alti troppo a lungo, visto che l’impatto economico della
politica monetaria si manifesta con alcuni mesi di ritardo. La BCE invece ha insistito sul suo approccio «data dependant», cioè prenderà le proprie decisioni in base agli ultimi dati disponibili. È un approccio comprensibile ma alcuni dati, per esempio l’inflazione «core» (cioè depurata
dalle variazioni dei prezzi dell’energia), tendono a riflettere la realtà con qualche mese di ritardo. Il rischio quindi è di viaggiare con il pilota automatico senza anticipare le evoluzioni del contesto.

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Fin qui nessuna sorpresa per i mercati. Ciò che invece non era atteso e ha generato una reazione positiva è il cambiamento di tono, molto più conciliante, da parte dei Presidenti della Fed e della BCE. Entrambi sembrano volersi sfilare dal ruolo di «falchi» della politica monetaria che
aveva caratterizzato i loro interventi negli ultimi mesi. Mancano due mesi alle prossime riunioni che potrebbero portare a ulteriori modifiche dei tassi d’interesse; nel frattempo verranno pubblicati nuovi dati economici che potrebbero confermare la discesa dell’inflazione e indurre
quindi a una pausa, almeno per quanto riguarda la Federal Reserve.

La BCE probabilmente alzerà ancora una volta i tassi perché l’inflazione europea scende più lentamente, ma molti indicatori, come i prezzi alla produzione, suggeriscono che stia rientrando verso il target. Un altro elemento considerato dalla BCE è l’inflazione generata dall’incremento dei
profitti aziendali, un tema che sta diventando sempre più centrale perché in molti settori l’inflazione ha fornito la scusa per alzare i prezzi oltre l’effettivo aumento dei costi produttivi. Tuttavia, in molti casi i volumi di vendita si stanno riducendo e i consumatori spesso non accettano ulteriori rincari.

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Occorre anche considerare che una parte importante dell’inflazione degli ultimi anni è stata causata dalle politiche fiscali espansive varate per contrastare la pandemia. Dall’anno prossimo vi sarà un’inversione di tendenza con un consolidamento delle finanze pubbliche, anche perché verrà riattivato il Patto di stabilità. Ci potrebbe essere quindi un ulteriore fattore che contribuirà a sgonfiare l’inflazione.

Inoltre, non è solo un tema di tassi ma anche di liquidità. La BCE sta ritirando liquidità dai mercati finanziari: per esempio, ha bloccato i reinvestimenti delle cedole e dei rimborsi del programma APP (Asset Purchase Programme) e ha ridotto drasticamente la liquidità offerta al sistema bancario (TLTRO). Di pari passo, la domanda di credito bancario da parte di imprese e famiglie si sta
diradando.

Anche la BCE quindi potrebbe essere quasi arrivata al picco dei tassi d’interesse. Molti investitori hanno mantenuto un’allocazione alla liquidità più elevata del normale in un periodo di rialzi dei tassi. Tuttavia, se siamo vicini al picco vi è ora l’opportunità di bloccare rendimenti elevati per diversi anni. Le obbligazioni di buona qualità rappresentano anche un cuscinetto in caso di recessione, perché un eventuale taglio dei tassi ne aumenterebbe il valore di mercato. Ciò non vale però per il segmento high yield che, a fronte di rendimenti elevati, potrebbe risentire di un aumento dei default e nelle fasi di tensione offre minore liquidità.