Il dibattito tra falchi e colombe è più acceso che mai
In uno scenario macroeconomico che fatica a trovare un punto di equilibrio, i sostenitori di una politica monetaria più restrittiva ritengono che, se è vero che l’inflazione sta scendendo, essa è fortemente contrastata dalla politica fiscale e dalle condizioni finanziarie. I governi ottengono infatti benefici da un regime di sostenuta inflazione, avendo posizioni debitorie rilevanti che perdono valore reale e ricevendo importanti incrementi di gettito legato alle imposte sui beni. Oltretutto, lo stock di debito emesso dai principali Paesi occidentali ha oggi un tasso cedolare medio decisamente più basso rispetto ai tassi di mercato, dal momento che per almeno dieci anni l’economia era stata caratterizzata dal costo dell’indebitamento eccezionalmente contenuto.
Per questo motivo, le Autorità fiscali possono permettersi di proseguire ad implementare manovre decisamente espansive (senza che ve ne sia reale bisogno, visto che il tasso di disoccupazione sfiora i minimi storici), pur mantenendo pressoché invariato il rapporto tra PIL e debito pubblico. In questo modo, la mano pubblica lenisce l’effetto combinato di prezzi al consumo in rialzo e tassi d’interesse in salita, frenando il raffreddamento del ciclo economico. Anche per quanto riguarda le condizioni finanziarie, il massimo livello di restrittività è stato raggiunto lo scorso autunno. Da lì in avanti, il tasso sui mutui è generalmente sceso, i tassi d’interesse a lungo termine si sono ridotti (producendo un più agevole finanziamento per le imprese), i mercati azionari sono saliti in maniera decisamente significativa dai minimi di tre trimestri fa. Le aziende americane, inoltre, possono godere anche di un dollaro più debole quasi del 20% rispetto ai minimi di fine settembre 2022. Infine, molti economisti hanno notato come la sorpresa positiva di una disinflazione più robusta in giugno, sia frutto di significativi effetti stagionali che si ridurranno nei prossimi mesi.
Chi dà enfasi a questi aspetti ritiene che sia necessario proseguire, ancorché con prudenza e con approccio data-dependent, a rialzare i tassi almeno altre due volte nel corso del 2023, soprattutto per non perdere credibilità nei confronti del mercato.
La fazione più accomodante, invece, tende a guardare a quanto l’inflazione sia già scesa nel corso di questi mesi e a quanto velocemente scenderà ancora nel corso dei prossimi, quando verrà meno la stagionalità che pesa sulla componente dei servizi. La Cina, inoltre, seconda economia mondiale, si trova attualmente in deflazione, soprattutto per la lenta uscita dalla crisi immobiliare domestica. Dato che la Cina è il primo esportatore al mondo, di fatto questo contribuisce a esportare disinflazione verso il resto del mondo. Inoltre, secondo questi economisti, come il governatore della Banca di Francia Villeroy o il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, la manifattura si trova già in recessione da diverso tempo, sia in America, ma soprattutto in Europa, il mercato del lavoro resta relativamente forte in quanto è sempre in ritardo rispetto al ciclo economico e un’eccessiva ulteriore azione restrittiva, potrebbe danneggiare inutilmente l’economia.
Inoltre, le politiche di bilancio diventeranno più restrittive nei prossimi sei-dodici mesi (dato che torneranno in vigore le regole europee di disciplina di bilancio, sospese durante la pandemia) frenando ulteriormente il ciclo. In una recente intervista, Ignazio Visco ha detto che ritiene probabile che l’obiettivo del 2% di inflazione possa esser raggiunto anche prima del 2025 perché la crescita dei prezzi rallenterà ancora: “inizieranno a riflettersi gli effetti della riduzione del prezzo dell’energia”. Secondo il Governatore di Bankitalia, la riduzione sarà “più veloce del previsto” e Francoforte riuscirà a proseguire il percorso disinflazionistico riuscendo comunque a evitare che l’economia entri in recessione. Se così non dovesse avvenire, se l’inflazione, cioè, non dovesse rapidamente scendere verso il 2%, allora, come sostiene il ministro francese Bruno Le Maire, alcuni pensano che piuttosto che pregiudicare la crescita economica, la Banca Centrale dovrebbe optare per modificare il proprio target di stabilità dei prezzi, alzandolo dal 2% al 3%.