Criptovalute, dopo il terremoto FTX come evitare il prossimo crash

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L’ultimo terremoto nel mondo cripto ha fatto crollare uno dei maggiori crypto-exchange, FTX, passato da terzo operatore al mondo per volumi, con una valutazione di 32 miliardi di dollari, al rischio di insolvenza in meno di una settimana. Non è il primo e, salvo una sterzata del settore verso una maggior trasparenza, non sarà l’ultimo. E il rischio è che le sue conseguenze possano farsi sentire anche sui mercati finanziari tradizionali.

La vicenda inizia lo scorso 2 novembre, quando si registrano le prime scosse. Emergono dubbi sulla solvibilità del bilancio di Alameda Research, società di trading fondata da Samuel Bankman-Fried, già fondatore di FTX. Il debito di Alameda, 8 miliardi di dollari erogati da FTX, sarebbe infatti in gran parte garantito da FTT, token emessi proprio da FTX.

Il 6 novembre Changpeng Zhao, fondatore e ceo di Binance, annuncia pubblicamente di voler vendere oltre 500 mln di dollari in FTT. Il valore del token crolla e il panico inizia a serpeggiare tra i clienti di FTX, che cominciano a vendere le criptovalute detenute sulla piattaforma.  Per evitare di essere travolta da una ‘corsa allo sportello’, FTX blocca i prelievi, congelando de facto gli asset dei suoi clienti.

L’8 novembre la crisi si fa conclamata. FTX, in piena crisi di liquidità, chiede aiuto a Binance, che annuncia la possibilità di un accordo per salvare la ormai ex-rivale acquisendola. L’operazione sembra dapprima conclusa, salvo poi saltare nella notte del 9 novembre. Oggi FTX è alla ricerca di un cavaliere bianco, che si vocifera possa essere Justin Sun, fondatore di Tron e altro cripto-imprenditore miliardario. La verità è che i termini e la fattibilità dell’operazione ad oggi non sono chiari a nessuno, sia per i tempi estremamente rapidi che per la poca chiarezza sulla reale consistenza del “buco”. Nel frattempo, a pagare sono i VC azionisti di FTX, e soprattutto i clienti – i cui risparmi sono ancora bloccati, se non evaporati. L’impatto sul mercato delle cripto è rilevante: Bitcoin brucia in pochi giorni oltre il 25% del suo valore, scendendo sotto i 17.000 usd, nuovo minimo dal 2020. Non solo, la banca americana quotata Silvergate capital, che effettua prestiti con garanzia di asset digitali, ha subito un brusco calo a Wall Street.

La crisi di FTX è l’ennesima prova di come l’universo dei cripto asset necessiti di un passo in avanti nella regolamentazione e nella trasparenza, anche per i potenziali effetti a catena che possono riversarsi sui mercati tradizionali. Da un lato Bitcoin non è più presenza trascurabile nel bilancio di numerose banche e fondi d’investimenti, mentre dall’altro fondi azionari, banche, private equity e venture capital hanno esposizioni consistenti ai crypto-exchange privati e quotati, essendo azionisti o creditori.

Operazioni tra parti correlate come quelle che hanno portato al naufragio di FTX sarebbero state sotto la lente di vigilanza e organi regolamentari in un contesto di finanza tradizionale, evitando una crisi così repentina di un colosso del settore.

Quello dei crypto-asset è, ancora oggi, un Far West dove spesso manca la trasparenza, e questa opacità non permette a clienti e investitori degli exchange di valutare a pieno il rischio di controparte a cui si espongono quando scelgono la piattaforma su cui operare o investire. Questo fa impennare il rischio di vedere i propri asset congelati per una crisi di liquidità.

La trasparenza e la regolamentazione sono per questo sempre più una necessità impellente nel mondo dei crypto-asset e la pietra angolare da cui costruire questo nuova fiducia è quella della prova di riserva, che nel caso di FTX è venuta a mancare. Si tratta di una verifica indipendente condotta da una terza parte, che garantisce che il depositario detenga le attività che dichiara di possedere per conto dei suoi clienti. Una scelta che però fanno ancora troppi pochi player del settore, e che dovrebbe essere invece uno standard di mercato.