Aspettative dei mercati vs realtà

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Secondo certi economisti, c’è una differenza significativa tra le aspettative degli investitori per l’economia americana, riflesse nei mercati, e le conclusioni che si possono trarre dai dati macroeconomici. I mercati spererebbero in una recessione moderata nel 2023, seguita da una ripresa economica nel 2024. La recessione potrebbe ridurre l’inflazione fino al 3% entro la fine dell’anno, con un conseguente taglio dei tassi d’interesse dell’1,5% nel 2024. Essenzialmente, le aspettative sono di un ritorno allo scenario goldilocks, il contesto ideale per i mercati finanziari, caratterizzato da un’inflazione tra il 2 e il 4% e da tassi d’interesse tra il 2 e il 3%.

Ad ogni modo, il contesto macroeconomico può far trarre conclusioni differenti. Innanzitutto, certi economisti ritengono che l’inflazione core, ovvero quella che esclude i prezzi volatili di alimenti ed energia, si stabilizzerà intorno al 4% per un lungo periodo, diventando la nuova normalità. La previsione è basata sulla tesi che per ridurre l’inflazione al target del 2%, la Fed dovrebbe alzare i tassi in maniera talmente elevata da causare una seria recessione. L’inflazione strutturale era già in aumento prima del Covid, e potrebbe essere troppo resistente per ridursi senza gravi conseguenze per l’economia. L’aumento dei prezzi è determinato da vari fattori, come la politica fiscale ultra-espansiva del governo e la de-globalizzazione che causa il rincaro delle materie prime. Inoltre, il maggiore potere contrattuale dato ai lavoratori dai leader politici causa un aumento dei salari.

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La tesi dei mercati che sostiene una recessione negli Stati Uniti può essere smentita dai dati macroeconomici. In primo luogo, i livelli di occupazione rimangono particolarmente elevati, con un’aggiunta di 339,000 posti di lavoro a maggio contro i 190,000 previsti (grafico sopra rappresentato). Inoltre, il mercato immobiliare si sta stabilizzando, essendo più dipendente dai tassi a lungo termine rispetto che dai tassi rialzati dalla Fed. Infine, la crisi delle banche regionali rende difficile un’ulteriore stretta monetaria, che sarebbe la causa maggiore di recessione. La solidità dell’economia non si limita agli Stati Uniti. Infatti, una recessione globale è ancora meno probabile, supportando un’inflazione a lungo termine.

La transizione energetica e dei trasporti richiede livelli elevati di capitale. Inoltre, l’allontanamento dalla Cina a causa dei rischi geopolitici, e verso i mercati emergenti, necessiterà grandi investimenti nelle infrastrutture di questi ultimi. Nel breve termine, l’inflazione sostenuta potrebbe causare una diminuzione dei prezzi degli asset. A lungo termine ci potrebbe essere un movimento di capitale verso i mercati emergenti, dalle aziende di software-tech a quelle di tech per l’energia e i trasporti, e dai titoli growth a quelli ciclici quando si accantoneranno i timori di recessione.

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LA DEFLAZIONE CINESE

In Cina l’IPC di maggio, sotto le aspettative, si è attestato allo 0,2%, in leggera crescita rispetto allo 0,1% del mese di aprile. Anche l’indice dei prezzi di produzione è stato minore del previsto, al -4,6% (grafico sotto rappresentato). Questo stato di deflazione, ovvero di calo dei prezzi, è dovuto a un rallentamento economico, causato da una riduzione sia della domanda domestica che di quella estera.

Le cause del rallentamento economico sono molteplici. Innanzitutto, gli analisti prevedono una lenta ripresa del settore immobiliare, parte sostanziale del PIL cinese. Per supportare la crescita, il governo dovrebbe attuare nuove misure, come favorire l’ottenimento del credito per i richiedenti di mutuo. Ad ogni modo, il Paese sta tentando di allontanarsi dal settore per diversificare l’economia. Inoltre, a maggio c’è stata una contrazione del settore manufatturiero e un rallentamento della crescita dei servizi. La mancanza di produttività economica del Paese può essere in parte attribuita al tasso elevato di disoccupazione giovanile, al 20,8% il mese scorso, che abbassa i consumi. Per favorire la ripresa del Paese, serviranno sia misure fiscali che monetarie. Xi Jinping ha annunciato che il governo introdurrà stimoli fiscali, senza però specificarne il contenuto. Investitori ed economisti speravano in misure più chiare e rapide. La Banca Popolare Cinese ha annunciato un taglio dei tassi d’interesse di 10 punti base, rendendo meno costoso il rimborso del debito, incentivando consumatori e aziende a richiedere prestiti. Ad ogni modo, i mercati si aspettavano un taglio più significativo, dati gli alti livelli di debito e le poche opportunità di lavoro che rendono il popolo cinese resistente alla richiesta di credito. Se il governo dovesse aspettare troppo a lungo prima di implementare le misure necessarie, ci potrebbe essere un crollo nei livelli di confidence, sia dei consumatori, i quali risparmierebbero di più riducendo i consumi, che delle aziende e degli investitori, i quali introdurrebbero meno capitale nel Paese. Il problema è domestico, ma anche estero. Infatti, il rialzo dei tassi negli Stati Uniti e in Europa ha ridotto le esportazioni cinesi. Inoltre, a cause dei rischi posti dalle tensioni geopolitiche, gli investitori esteri richiedono un tasso di crescita particolarmente elevato per immettere capitale nel Paese. Il governo dovrebbe attuare misure per cercare di stabilizzare la posizione cinese nel commercio globale. Gli effetti del rallentamento cinese potranno ridurre l’inflazione nel resto del mondo. Potrebbe calare sia il numero delle importazioni cinesi dagli altri Paesi, che il prezzo delle importazioni degli altri Paesi dalla Cina. La diminuzione dei prezzi per il resto del mondo potrebbe anche avvenire tramite la riduzione dei costi energetici. Infatti, la Cina è l’importatore maggiore di petrolio. Riducendone la domanda a causa di un rallentamento economico, ne ridurrebbe anche il prezzo.