Dibattito sulla giustizia. Il dramma della lentezza dei procedimenti e dell’imprevedibilità dei giudizi

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di Alessandro De Nicola
Senior Partner of the Italian offices of Orrick, Herrington & Sutcliffe —
articolo pubblicato anche su La Stampa e su Il Secolo XIX.

Il dibattito sulla giustizia

Nel confuso dibattito sulla giustizia in corso nel nostro Paese si tende a parlare per tesi precostituite sulle pagine dei giornali o nei talk show televisivi in modo inconcludente e spesso apodittico. Su queste colonne (La Stampa ndr), Vladimiro Zagrebelsky ha argomentato che il vero problema della giustizia italiana non è di abrogare il concorso esterno nelle associazioni mafiose o di separare le carriere ma l’intollerabile durata dei processi penali dovuta alle infinite possibilità “di appelli e ricorsi in Cassazione” e la difformità delle decisioni giudiziarie che provocano danni a vittime e imputati.

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Forse vale la pena approfondire ulteriormente il discorso per constatare che il dramma della lentezza dei procedimenti e dell’imprevedibilità dei giudizi attanaglia tutto il sistema giudiziario italiano, civile, penale, amministrativo e tributario, per di più con differenze territoriali eclatanti tra Nord e Sud.

Il nodo gordiano

Pur essendo il dato in lieve miglioramento, l’Italia è ancora al penultimo posto in Europa (prima della solita Grecia) per la durata dei giudizi civili e il quadro delineato dallo studio di ottobre del 2022 della Banca d’Italia è certamente sconsolante. Parlando dei giudizi d’appello penali, secondo il Consiglio d’Europa durano 1167 giorni, quasi 10 (dieci!) volte in più la media europea (Cepej, 2022). La causa non è addebitabile solo a una carenza di risorse: il Belpaese spende per la giustizia una percentuale del Pil in media con il resto dell’Europa, gli stipendi dei giudici sono migliori e – grazie al Pnrr – sono stati stanziati fondi ingenti che hanno già portato all’assunzione fino ad aprile del 2023 di 8.200 funzionari e 3.240 profili tecnici.

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Ma allora qual è il nodo gordiano? Uno vistoso, sebbene non l’unico, è la mancanza di managerialità nell’amministrazione del sistema e dell’assenza di criteri di premialità e riconoscimento del merito per il personale. I palazzi di giustizia dovrebbero essere gestiti non dal magistrato presidente del Tribunale, ma da direttori generali che applichino sistemi gestionali e possano adeguatamente premiare e promuovere il personale che opera sotto la loro direzione e che oggi è perennemente incollato agli scatti d’anzianità. Nonostante la loro preziosa funzione, oggi i cancellieri entrano in un percorso di carriera che definire sovietico è riduttivo, perché almeno nella vecchia Urss Stakanov era additato come esempio per il popolo.

I magistrati, peraltro, operano praticamente legibus soluti, in un regime di semi irresponsabilità. Come è noto ogni quadriennio i togati italiani devono passare un giudizio di idoneità e l’ultima volta il 99,3% ha ottenuto una valutazione positiva, lo 0,2% una “non positiva” e lo 0,5% “negativa”, un risultato così ridicolo che non vale nemmeno la pena di commentare. La riforma Cartabia ha cercato di introdurre dei correttivi per rendere un po’ più oggettivi e legati a parametri quantitativi i giudizi. Vedremo l’attuazione e i risultati, dato che il ministro Nordio si è preso un po’ di tempo ulteriore rispetto al previsto per emanare i decreti delegati, affidando il tutto a una commissione composta per il 70%… da magistrati.

I procedimenti disciplinari avanti al Csm

Né va meglio coi procedimenti disciplinari avanti al Csm. Negli anni dal 2019 al 2021 i magistrati ordinari colpiti da provvedimenti disciplinari sono stati in media 31 l’anno, circa lo 0,35% degli 8.500-9.000 in servizio (di cui 200 fuori ruolo nei ministeri, altra strana anomalia). L’altro lato della medaglia è che quelli bravi oltre a essere stati sottoposti al metodo Palamara per le assegnazioni degli uffici più importanti, non godono di nessun beneficio. Infine, la formazione dei giudici non prevede materie gestionali, come organizzazione aziendale o delle risorse umane, né economiche.

Insomma, se è vero che nel 2021 sono stati aperti 5418 procedimenti per abuso d’ufficio, reato che il governo vuole abolire, e nello stesso anno solo 62 si sono chiusi con condanna o patteggiamento, forse se i pm sapessero che, se non richiedono subito l’archiviazione e poi i loro casi finiscono sempre nel nulla, potrebbero esserci conseguenze sulla loro carriera, i numeri di questo spreco di risorse sarebbero ben diversi.