Noi e il lavoro: chi ama chi?

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Lavoro “SÌ” e lavoro “NO”, “il lavoro non ti ama”, al posto del “bisogna amare il proprio lavoro” a cui eravamo abituati, “Chi ce lo fa fare?”, il lavoro e la sua utilità sociale proclamata dal “Manifesto dei Servi” … il dibattito continua in modo ricco e intenso (ci riferiamo ad alcuni dei titoli della recente bibliografia sul tema).

Ci si chiede, quindi, dove sta andando il lavoro? Quale è il futuro del lavoro? A questi interrogativi si associano mille domande e dimensioni più specifiche (non per ultima quella della digitalizzazione e del I.A). Noi partiamo dal dilemma di fondo intorno alla quale si costruisce il dibattito nell’ultimo periodo: lavorare il meno possibile (vedi la riduzione dell’orario di lavoro o la grande fuga/regressione) perché la vera vita la facciamo nel tempo libero oppure continuare a lavorare perché il lavoro non è solo necessità, fatica e frustrazione, ma è anche “spazio” di realizzazione, di incontro con “l’altro” e di costruzione della propria identità.

E’ evidente che le posizioni estreme non rappresentano la realtà. Siamo sicuri che la vita extra lavorativa sia sempre così appagante ed emancipante? Non tutte le persone vivono in ambienti sociali stimolanti, non tutte hanno una vena artistica e creativa, non tutte dispongono di un ambiente domestico così confortevole e piacevole (molte esperienze di smartworking l’hanno dimostrato). D’altra parte perché dare per scontato che tutti i lavori offrano occasioni di crescita personale e professionale, retribuzione dignitosa e chiarezza riguardo alla finalità/utilità?

Cosa dicono i dati del mercato del lavoro? La loro interpretazione ci sembra un po’ affrettata. E’ difficile credere che l’uscita dal (o il ritorno al) lavoro possano essere l’effetto di una unica variabile. Inoltre, si dice che l’andamento stesso di tali fenomeni corrisponda a movimenti a breve termine mentre i cambiamenti della cultura del lavoro intorno ai quali si sta dibattendo siano piuttosto a lungo termine.

Comunque c’è una sfida di grande rilevanza alla quale convergono le varie posizioni del dibattito: possiamo rendere il lavoro attraente per i soggetti sociali dell’era digitale? Quindi, una nuova emancipazione attraverso il lavoro è ancora possibile? La nostra risposta è certamente sì, ma dipende dal tipo di lavoro e soprattutto dal modello organizzativo e culturale dell’impresa.

Vogliamo fare una riflessione a partire da due recenti esperienze concrete in cui siamo coinvolti. Si tratta di un Ente Pubblico e di una Cooperativa sociale.  In entrami i casi si cerca di reperire personale e quindi ci si trova di fronte alla necessità di rendere il lavoro appetibile per attrarre risorse qualificate e per poterle trattenere. In particolare nel caso dell’ente pubblico, certi profili non si avvicinano alla PA o abbandonano il lavoro qualche mese dopo aver vinto il concorso (il tramonto del posto fisso? Dove sei Checco Zalone?).

Lo sforzo di progettare percorsi lavorativi interessanti in termini di crescita professionale e personale e di creare condizioni organizzative in grado di valorizzare il lavoro e la competenza, non è soltanto retorico.

Alla difficoltà per le imprese di trovare personale qualificato, si associa la sfida di creare ambienti di lavoro in grado di attrarre le risorse qualificate e far “rinascere” quelle esistenti.

Le mission e le strategie aziendali oggi necessitano di modelli organizzativi flessibili capaci di generare e ispirare comportamenti lavorativi che esprimono un equilibrio tra dimensioni, considerate fino a qualche tempo fa opposte, quali l’autonomia/autoregolazione, il rigore procedurale e metodologico, l controllo gerarchico e la sinergia/collaborazione. Al centro di questa evoluzione dei modelli organizzativi c’è sempre la sfida di trasformare il lavoro da “dovere” e “obbligo” a “soddisfazione” e “nuova emancipazione”.

Tanto tempo fa H. Ford diceva “Qualità è fare la cosa giusta anche quando nessuno ti controlla” e rimane ancora un principio valido. Dovremmo forse ripensare, ad esempio, al Codice Etico in modo che non sia solo uno strumento per la compliance (spesso formale) ma che diventi un’occasione per un nuovo incontro tra diritti e doveri e di dialogo tra impresa e lavoratori al fine di creare nuovo senso per il lavoro intorno ai valori, rafforzare il senso di appartenenza, e rigenerare l’impegno e la responsabilizzazione.