Lo smart working oggi. Intervista all’Avv. Giampaolo Berni Ferretti

Marco Rosichini -

Lo smart working. Elementi di stress e responsabilità del datore di lavoro

Smart working Intervista all’Avv. Giampaolo Berni Ferretti – Qui per approfondimenti

— di Marco Rosichini — 

Gli sconvolgimenti della guerra e il riassetto degli equilibri geopolitici hanno messo in secondo piano i cambiamenti avvenuti nel mercato del lavoro durante la pandemia con il fenomeno dello smart working.
Il termine fu coniato negli anni Settanta da uno scienziato americano, Jack Nilles, il quale intuì, a partire dallo studio del traffico lavorativo della città di Los Angeles, come il lavoro da remoto potesse tradursi non solo in una minimizzazione dei costi, ma anche in una maggiore rapidità di espletamento del lavoro stesso. Oggi lo smart working sta assorbendo le tradizionali modalità lavorative andando ad intaccare la dimensione psicologica della socialità e presentandosi come case study in riferimento alla letteratura giuridica della responsabilità lavorativa.

A tal proposito abbiamo intervistato un esperto del settore, l’Avv. Giampaolo Berni Ferretti, relativamente alle ultime osservazioni della giurisprudenza sul tema in questione. Con Giampaolo Berni Ferretti (nella foto) cercheremo di individuare quali strumenti di prevenzione, derivanti dalla concertazione delle parti (medici specialisti, legislatore ed aziende) possano temperare le degenerazioni più impattanti del fenomeno sul benessere psichico dell’individuo.

Avvocato Berni Ferretti come definirebbe lo smart working?

Se dovessi indicare una definizione descriverei lo smart working come una situazione di discontinuità lavorativa che mette l’individuo in condizioni di passare un numero significativo di ore di fronte uno schermo, in assenza di interazione sociale, fondamentale per il benessere psichico dell’individuo. È evidente, soprattutto oggi, come questo sia causa di stress, disturbi d’ansia e depressione che in taluni casi possono sfociare in fenomeni di burning out.

Quali sono nello specifico le responsabilità del datore di lavoro?

Il datore di lavoro può decidere di far svolgere lavoro agile al dipendente, unilateralmente e senza accordo tra le parti, ma proprio la mancanza di un accordo individuale con il lavoratore rende necessaria la predisposizione da parte dell’azienda di un Regolamento aziendale in materia di smart working che tracci le regole generali da rispettare per chi adotti tale modalità di lavoro, anche al fine di delinearne le modalità di svolgimento. Anche allo smart working si applicano, infatti, le norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro del d.lgs. n. 81 del 2008, sia in tema gestione della prevenzione del rischio, sia in tema di rischi specifici. Essendo alla base del lavoro agile una maggiore autonomia e responsabilità del lavoratore, l’azienda dovrà individuare le misure di prevenzione comportamentali e procedurali puntando sulle attività di formazione e informazione.

Smart working nella PA

Quali approcci di prevenzione sono oggi applicati dal legislatore nazionale?

Un approccio concreto è quello che viene suggerito nel Protocollo siglato il 30 settembre 2020 tra il Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’INAIL in tema di smart working nella PA. Secondo tale protocollo il datore di lavoro ha il dovere di apprestare un ambiente idoneo a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti. L’onere è espresso in una norma di chiusura (L’art. 2087 c.c ) suscettibile di interpretazione estensiva, in ragione del rilievo costituzionale del diritto alla salute tutelato. Si sostiene, pertanto, che il datore di lavoro non sia tenuto solo ad attivarsi nell’adozione di tutte le misure necessarie alla tutela della condizione psico-fisica del lavoratore, ma anche ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente, mediante la creazione di condizioni lavorative “stressogene”.

Quali sono le responsabilità del datore di lavoro e gli obblighi che quest’ultimo ha nei confronti del lavoratore?

La responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, a ciò conseguendo che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e che solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

E per quello che riguarda i casi più degenerativi?

In riferimento a questi casi  la responsabilità del datore di lavoro, nelle leggi della disciplina giuslavoratoristica è riferita alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Nella scienza penalistica è necessaria anche la prova del nesso causale, ovvero la dimostrazione, almeno in termini di probabilità, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata ed intensità dell’esposizione a rischio, che, rispetto all’evento dannoso, l’attività lavorativa ha assunto un ruolo concausale, anche alla stregua della regola del concorso di cause come previsto e disciplinato dal codice penale.
Interessante a tal fine è anche la definizione di lavoro della nozione di occasione di lavoro di cui al Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali: implica la rilevanza di ogni esposizione a rischio ricollegabile allo svolgimento dell’attività lavorativa in modo diretto o indiretto e, quindi, anche della esposizione al rischio insito in attività accessorie o strumentali allo svolgimento della suddetta attività.

Ma cosa è lo stress e quali sono le conseguenze sul piano fisico?

In un recente confronto con la Dr.ssa R. Chifari Negri, Specialista in Neurologia, è emerso che di per sé lo stress non è del tutto negativo, ma è una risposta adattativa dell’organismo per superare situazioni di rischio che nell’uomo ha radici ancestrali. Un aumento della secrezione di adrenalina aumenta le performance sia fisiche sia mentali, aiutando l’uomo a superare le situazioni di emergenza. Tuttavia, se questa reazione si prolunga nel tempo lo stress cronico determina un insieme disturbi vegetativi (palpitazioni, tremori, disturbi del sonno) e perfino della memorizzazione. Il cortisolo che viene prodotto nello stress cronico ha un effetto sull’ippocampo, la zona del cervello dove viene “stoccata “la memoria a lungo termine, con conseguente riduzione della capacità di apprendimento. Questo insieme di sintomi noto ai più come disturbi d’ansia può essere la conseguenza di uno stress cronico. Come dicevo in apertura un disturbo che può essere correlato ad un periodo di smart working prolungato è il burn out. A livello individuale semplici accorgimenti, come uno stile di vita sano, tecniche di meditazione, pianificazione della propria giornata, evitando il lavoro multitasking, biofeedback possono essere efficaci. A livello aziendale l’utilizzo di figure anche esterne che insegnino a rafforzare le abilità di coping, aumentando la resilienza e in generale una ristrutturazione cognitiva, possono essere impattanti in senso positivo. Così come la gratificazione, sia sul piano sociale tra colleghi nell’ambiente di lavoro, sia economico, è uno strumento efficace. Quando malauguratamente il burnout sfocia nella depressione la psicoterapia cognitivo comportamentale e farmacologico, con l’ausilio di specialisti, messi a disposizione del lavoratore possono essere determinanti.

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Marco Rosichini