La riforma del Codice appalti. Contratti pubblici: intervista a Giovanni Savoia
Il Codice appalti
Quella del Codice appalti è una delle grandi riforme strutturali cui l’Italia si è impegnata in sede di PNRR, come la giustizia o la concorrenza. Tuttavia, già prima dell’emergenza Covid con il Decreto sblocca cantieri del 2019, ma soprattutto dopo con il Decreto Semplificazioni del 2020 e il Decreto PNRR del 2021, si erano introdotte numerose norme volte a semplificare la materia dei contratti pubblici.
L’importanza strategica di questo settore è evidente: nel 2023 il valore complessivo degli appalti di importo pari o superiore a 40.000 euro si è attestato attorno ai 283,4 miliardi di euro (Relazione annuale ANAC). Gli appalti pubblici rappresentano negli ultimi anni tra il 10 e il 15% del PIL italiano.
Perché l’esigenza di una riforma?
Perché il Codice del 2016 nasceva in un’ottica fortemente anticorruttiva: la gara era vista come terreno d’elezione per comportamenti illeciti e, pertanto, tutta la normazione era stata improntata a rafforzare limiti e controlli, a scapito però della celerità e del risultato. Ruolo centrale era stato assegnato all’ANAC, titolare anche del potere di c.d. soft law. Per l’attuazione del PNRR, tuttavia, il vecchio Codice non poteva essere sufficiente.
Il nuovo Codice cambia paradigma, ponendo al centro tre principi fondamentali: risultato (“costituisce criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto”), fiducia (“reciproca nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione”) e accesso al mercato (concorrenza, imparzialità, non discriminazione, pubblicità e trasparenza, proporzionalità).
Intervista a Giovanni Savoia, Legal counsel presso A2A
Oltre a risultato, fiducia e accesso al mercato, quali sono gli altri pilastri essenziali del nuovo Codice degli appalti?
“Secondo la mia personale opinione il principio di conservazione dell’equilibrio economico del contratto (dopo i travolgimenti dell’epoca post-Covid e le due guerre), la digitalizzazione dei contratti pubblici e la qualificazione delle stazioni appaltanti”.
Può darci qualche dettaglio in più?
“Sì, sfatiamo alcuni consolidati miti. Partiamo dalla lunghezza delle gare: il Codice detta tempi massimi precisi per ogni tipologia di procedura (es. la procedura aperta deve chiudersi entro 9 mesi). Il superamento dei termini costituisce silenzio inadempimento e rileva anche al fine della verifica del rispetto del dovere di buona fede. Insomma, non sono lunghe le gare; può essere lunga l’esecuzione se l’assetto iniziale è sbilanciato o comunque poco chiaro”.
Spesso si legge sui giornali che i ricorsi al TAR rallentano l’esecuzione delle opere pubbliche, è vero?
” Nel 2023 la durata media di un giudizio in materia di appalti è stata di 107 giorni in primo grado e 148 giorni in appello, con una riduzione ulteriore rispetto all’anno precedente (dalla Relazione del Pres. Cons. Stato di inaugurazione anno giudiziario 2024). In media tra TAR e CDS, i ricorsi in materia di appalti depositati nel 2023 ammontano al 6% del totale dei ricorsi presentati davanti al Giudice amministrativo (per es. quelli in materia di edilizia ammontano al 12,3%)”.
Un altro pregiudizio da sfatare?
“C’è una ritrosia tutta italiana verso l’istituto del subappalto. Il nuovo Codice ha sdoganato il subappalto a cascata, superando un vecchio divieto estremamente rigido, per adeguarsi ai richiami della Commissione UE. Ciò però non significa riduzione delle garanzie. Il problema non sono le norme, ma i comportamenti e i controlli, che spesso mancano”.
Come desidera concludere questa intervista?
“I contratti pubblici sono un tema affascinante, straordinariamente rilevante per l’economia nazionale, certamente complesso. È un settore che, per i riverberi che produce e la responsabilità che richiede, necessita di profonda competenza e formazione continua degli ‘addetti ai lavori’.