La diversa narrativa delle azioni fuori dalla borsa

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Da inizio secolo il ruolo del private equity è andato via via crescendo. Se fino a un decennio fa questo settore era sostanzialmente una nicchia riservata agli investitori istituzionali, oggi è molto più rappresentato nei portafogli dei privati. Il rapporto Wealth Global Family Office Report 2023 comprende un’analisi dell’asset allocation di 230 family office ed evidenzia come il peso di questi strumenti sia notevolmente aumentato raggiungendo oltre il 19% del totale, tra investimenti diretti e fondi.

Infatti, in seguito alle politiche monetarie ultra espansive implementate dal 2009 fino al 2021, le aspettative di rendimento per quasi tutte le tipologie di asset class, in particolare le obbligazioni, erano diminuite, rendendo il compito dei gestori più complesso e portandoli a valutare con maggior interesse gli investimenti alternativi. Di pari passo, in molti Paesi la regolamentazione ha reso più agevole proporre questo tipo di investimenti a una platea più ampia di investitori rispetto al passato.

In qualche modo questo processo ha cambiato la natura del mercato: sempre più imprese decidono di restare private, rinviare la quotazione o evitarla del tutto rivolgendosi all’industria del private equity. Tra il 2000 e il 2023, il numero di imprese con private equity nel capitale è cresciuto di sei volte. Di fatto, probabilmente una parte del valore aziendale che confluiva nei mercati pubblici si ritrova oggi in quelli privati.

Gli ultimi tempi sono stati però più complicati per l’industria del private equity, che ha risentito dei tassi d’interesse maggiori, del minor numero di transazioni e della grande quantità di capitale ancora da investire (stimato da S&P Global Market Intelligence in 2600 miliardi di dollari a fine 2023). Ciò ha portato a un’agguerrita competizione per accaparrarsi le aziende in vendita talvolta a prezzi e multipli superiori a quelli del mercato azionario.

Inoltre, cedere le partecipazioni in portafoglio è diventato più difficile. Secondo una recente ricerca di Bain & Co. il valore delle operazioni di cessione da parte del private equity è diminuito del 44% nel 2023, toccando il minimo da un decennio, e si è raggiunto un numero record di 28 mila società in vendita, con un valore stimato in 3 mila miliardi di dollari, oltre il 40% delle quali è detenuta in portafoglio da almeno quattro anni.

Le ultime informazioni ci dicono però che lentamente il mercato del private equity sta convergendo verso la borsa, perché i gestori si adeguano ai tassi d’interesse più elevati e alle nuove condizioni economiche: si tratta di un buon segno. Le valutazioni sono scese dell’8-9% nel corso dello scorso anno verso un multiplo EV/EBITDA (rapporto tra valore d’impresa e margine operativo lordo) di 10,8x, che rappresenta un punto di partenza più realistico. Inoltre, nel mercato secondario delle partecipazioni scambiate tra fondi di private equity le operazioni avvengono a uno sconto medio del 15% rispetto al NAV (Net Asset Value, valore stimato degli investimenti in essere).

Dal punto di vista degli investitori, il private equity può consentire di aumentare la diversificazione comprendendo quote di società di minori dimensioni e potenziare i rendimenti attesi. I maggiori rendimenti rispetto a un investimento in borsa sono strettamente connessi ai rischi impliciti in questo tipo di investimenti: la durata spesso superiore al decennio, la difficoltà (talvolta impossibilità) di uscire prima della scadenza, la forte concentrazione su poche società, la minore trasparenza rispetto ai mercati quotati e la leva finanziaria che può essere molto elevata.

Proprio il ricorso alla leva finanziaria da parte dei fondi di private equity può amplificare i risultati ed è una delle ragioni per le quali i confronti tra i ritorni del private equity e le azioni quotate a lungo termine vedono prevalere gli investimenti fuori dalla borsa (dati Cambridge Associates e MSCI AC World dal 1993).

Anche le modalità di valutazione degli investimenti portano a comportamenti diversi. Se la borsa è per sua natura volatile e cerca di riflettere ciò che potrebbe accadere tra qualche mese, il NAV di un fondo di private equity è il risultato di valutazioni che tengono conto di molteplici fattori e tipicamente si muove più lentamente.

Anche se in entrambi i casi si tratta di investimenti azionari, talvolta la percezione finisce per essere realtà. Il fatto che gli strumenti di private equity non siano valorizzati su base giornaliera può creare una sensazione di maggiore stabilità che, unitamente alla mancanza di liquidità, può evitare agli investitori più emotivi di liquidare una posizione nel momento sbagliato cristallizzando perdite sulla carta. L’illiquidità, d’altra parte, richiede di poter far fronte a qualsiasi esigenza senza smobilizzare il capitale investito per molti anni. Si tratta insomma di investimenti da prendere in considerazione come componente satellite di un portafoglio diversificato.

Come per qualsiasi investimento vale la regola della diversificazione e in questo caso conviene affidarsi a gestori diversi, tenendo in considerazione che la dispersione dei rendimenti è ancora superiore. Inoltre, il concetto di diversificazione qui assume anche un orizzonte temporale ed è consigliabile avere «vintage» diversi, cioè investimenti distribuiti su diverse annate per smussare eventuali eccessi valutativi.

L’opportunità per gli investitori sofisticati è di aumentare diversificazione e ritorni puntando su investimenti che hanno un orizzonte temporale molto lungo e che richiedono una programmazione costante per diversi anni per la stessa costruzione di un portafoglio in questo ambito.