Fidelity: l’asimmetria geografica continuerà a crescere, occhi puntati ad Est

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“Il 2020, anche sulla scia della seconda ondata pandemica che stiamo attraversando in queste ultime settimane, non potrà che chiudersi all’insegna di una recessione globale” spiega Donatella Principe, Director, Market and Distribution Strategy. Che mette tuttavia anche l’accento sulla fase di recupero.

Un trend che si è manifestato in maniera chiara nel corso di quest’anno così singolare nelle sue dinamiche e che, in maniera altrettanto evidente, ci accompagnerà anche nel corso del 2021, è quello che ruota intorno al concetto di diversificazione su base geografica. La media della dinamica globale non fotografa infatti in maniera obiettiva la situazione di ogni singola area geografica dato che la pandemia non ha fatto che esacerbare e amplificare le divergenze già in essere. È palese, ad esempio, che la sofferenza mostrata nel segmento dei mercati emergenti sia stata più contenuta in fase di caduta rispetto a quanto accaduto nei Paesi sviluppati. E anche che lo stesso accadrà in fase di ripresa: nei mercati sviluppati, infatti, è molto difficile che il percorso di recupero riesca a compensare quanto lasciato per strada nel corso di quest’anno. Un’ipotetica classifica? Il Vecchio Continente fanalino di coda, l’Asia al primo posto, sulla scia del traino di Pechino.

La regione asiatica nel suo complesso riuscirà a dare concretezza ad una serie variegata di spunti messi a punto in questa fase. Punto di partenza, naturalmente, la capacità gestionale della crisi sanitaria con cui l’Asia è riuscita a gestire la pandemia – anche sulla scorta dell’esperienza accumulata in seguito alla Sars – a differenza di quanto avvenuto in Occidente che, di fatto, non ha fatto altro che subire la pandemia e i suoi effetti. Altro spunto fondamentale è fotografare l’analisi della situazione economica delle differenti aree geografiche prima che iniziassero a fare i conti con la pandemia. L’Asia si trovava in una fase di piena accelerazione grazie al consolidamento dei fondamentali, gli Stati Uniti stavano pur sempre affrontando la fase espansiva più lunga della storia moderna seppur a fronte dei primi rallentamenti, mentre molte aree del Vecchio Continente erano già in un contesto di crescita negativa anche per ragioni legate all’assenza di riforme strutturali condivise a livello comunitario.

Su una base di partenza così variegata, ancora più evidente è stata l’applicazione delle strategie di risposta. Encomiabile su scala globale l’azione delle Banche centrali che hanno messo a disposizione in meno di un anno uno stock di capitale pari a quello iniettato in circa 10 anni (post Lehman Brothers) gettando così le basi affinchè i singoli Paesi potessero dispiegare a pieno regime il proprio sforzo fiscale. Ed i governi, obiettivamente, hanno risposto in maniera attiva e in piena sintonia con l’intervento delle Banche centrali mettendo in pratica uno sforzo fiscale senza precedenti, pari a circa un terzo del PIL mondiale. Un accento importante sulla tempistica inoltre, in un contesto in cui è assolutamente valido il vecchio assioma: “prima vuol dire meglio”. Un esempio? Gli Stati Uniti hanno dispiegato i propri strumenti a marzo, in Europa l’accordo è stato raggiunto a luglio, con effetti ancora da concretizzarsi in maniera evidente.

A tal proposito, è sempre più evidente una sorta di rallentamento evidente anche in termini di utilizzo del Recovery Fund in Europa laddove i vari Paesi sembra non sceglieranno di utilizzare fino in fondo gli strumenti messi a loro disposizione. Inoltre, a seconda dello strumento impiegato, variano anche le strategie messe in atto: è ormai infatti chiaro come gli investimenti contino molto di più rispetto ai semplici trasferimenti. Tutto ciò è particolarmente importante anche perché è sempre opportuno considerare come i Paesi stiano reagendo alla crisi spendendo stock di denaro che, in realtà, non hanno a loro disposizione. Perfino nella virtuosa Germania l’espansione sta procedendo in deficit. La speranza di fondo è chiara, vale a dire quella di innescare un circolo virtuoso che permetta di ripagare il debito attraverso gli introiti provenienti da una crescita maggiore, tale da poter supportare un aumento della tassazione.

Un ulteriore tema di riflessione – anch’esso in grado di ampliare la differenza tra le differenti aree geografiche – è lo sviluppo della tecnologia. Senza dubbio le condizioni di confinamento e lockdown in giro per il mondo hanno zavorrato tutte le economie ma è altrettanto vero che i Paesi in grado di mostrare maggior resilienza sono stati i Paesi più digitalizzati: non è un caso ad esempio che l’Asia abbia reagito meglio anche grazie ad una quota maggiore di millennials (nativi digitali) e al fatto di essere sede dei maggiori mercati di e-commerce al mondo (sempre Pechino a guidare la classifica). Anche per questo l’Asia sarà l’unica area a contribuire in maniera positiva sull’economia mondiale.

Infine una riflessione sul mercato del lavoro: in alcuni Paesi la crisi Covid è stata interpretata come game changer, quasi un’opportunità per modificare impostazione di base e creare una nuova normalità. In altri, invece, c’è stato solo un atteggiamento difensivo volto a congelare lo status quo nel periodo più duro della pandemia per poi tornare a riproporlo in futuro. Un esempio calzante di tale atteggiamento si evince dall’analisi dei dati sul mercato del lavoro negli Stati Uniti ed in Europa: negli USA i numeri parlano di un dato epocale con il tasso di disoccupazione che ha toccato i suoi massimi storici anche rispetto alla crisi del ‘29. In Europa, al contrario, guardando solo ai dati sulla disoccupazione sembra quasi non ci sia stata crisi. Ciò discende parzialmente dall’atteggiamento adottato negli scorsi mesi: negli Stati Uniti si è puntato sull’implementazione dei sussidi di disoccupazione mentre al di qua dell’Atlantico il focus è stato il congelamento dello status quo. Altro esempio la Francia: a Parigi hanno tenuto artificialmente in piedi molte aziende. La Francia ha subito una contrazione del PIL di quasi 10 punti percentuale negli ultimi tre trimestri, ma da inizio anno i default si sono ridotti del 25%. Il rischio è gettare le basi per creare un esercito di zombie companies che minano la solidità stessa del tessuto economico a lungo termine.