Imprese in crisi e leggi italiane ferme al Medioevo
di Alessandro Arrighi
Negli Stati Uniti esiste il chapter 11 per ottenere l’esdebitazione
Il chapter 11, negli Stati Uniti, consente a chi intenda proseguire l’attività di impresa, di ottenere l’esdebitazione, generalmente non superiore a tre mesi. Nel mondo anglosassone, in cui la normativa, anche grazie al sistema del Common Law, si è sviluppata in modo più dinamico, le norme sulla crisi di impresa sono tese al superamento della stessa, nel modo più rapido e meno socialmente impattante: durante il “periodo della ristrutturazione”, l’azienda può continuare la sua attività, con il controllo del giudice. Nel frattempo, l’impresa debitrice deve elaborare un piano per la riduzione dell’indebitamento, con l’ausilio dei vari comitati nominati dal giudice che ne coordina i lavori, finalizzati, prima di tutto, alla salvaguardia della continuità. Il giudice stesso, se ritiene il “piano di ristrutturazione” equo e vantaggioso, potrà farlo eseguire, anche se questo fosse rifiutato dai creditori. Solo nei casi di comprovata frode, disonestà o grave incompetenza, verrà nominato “un curatore” per gestire la società durante l’intera procedura ed eventualmente, nei casi più gravi, non sarà autorizzata la prosecuzione dell’attività.
L’Italia
È proprio dalle norme delle corporative medioevali che nasce la normativa fallimentare, quantomeno dei paesi di diritto di derivazione romanistica. Il sistema normativo si diffuse in Europa, grazie al contributo determinante dei mercanti italiani, tanto che, tali norme furono accolte nella Ordonnance de Commerce del 1673, in Francia, poi nel Code Napoléon nel 1804, da cui nella legge francese sui fallimenti del 1838, da cui, in Italia, nel Codice Albertino del 1842 e, di lì, nel nostro codice civile e nella legge fallimentare.
La massima “si fallitus, ergo fraudator” è transitata per ottocento anni nelle coscienze dei legislatori e di chi esercita il potere giudiziario e persino in alcuni torquemada curatori, di talché, ancora oggi, il termine fallimento in Italia tende a vestirsi di una connotazione eticamente negativa e non è raro leggere sentenze in cui il reato sembri il fallimento stesso, come se vivesse una profonda convinzione che chi è fallito, specialmente se le cifre sono rilevanti, necessariamente abbia, nella migliore delle ipotesi, consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte; come se il rischio di impresa, una volta falliti, sia considerato azzardo e quello sia il punto di partenza per cercare altri reati. E se, poi, alla fine, l’imprenditore sarà assolto, i procedimenti penali, lo avranno comunque costretto a non a fare impresa, quantomeno in Italia, per moltissimi anni. E così, restare fermi al medioevo non consente alla nostra economia di competere con quella degli altri Paesi.